di Ambassador

Emmanuel Macron, sulle orme del suo predecessore Hollande, ha rilanciato l’operazione Barkhane di contrasto al terrorismo avviata nel 2014. Il Capo dello Stato francese, riafferma così la politica di potenza transalpina in Africa, già confortata dalla benevolenza statunitense sin dall’era Bush.
E l’Italia? L’operazione Barkhane prevede l’impiego di 470 nostri militari con l’obiettivo di frenare i flussi migratori diretti dall’Africa subsahariana verso la Libia, che hanno in Niger uno snodo strategico. L’intervento italiano sarà inquadrato nella più ampia operazione euro-africana decisa al vertice di Celle Saint Claud da Macron e saranno necessari 423 milioni di euro per finanziarla.
La UE e gli USA ne stanzieranno 50 ciascuno e 5 i Paesi africani coinvolti (Mali, Burkina Faso, Mauritania, Niger e Ciad), 8 la Francia, 100 i sauditi e 30 gli Emirati Arabi Uniti. L’attività di controllo, è stato stimato, costerà invece al nostro Paese ben 150 milioni di euro annui.
Ma non è tanto questo il principale motivo di perplessità. Da un lato togliamo le castagne dal fuoco alla Francia, che gode di un indubbio sollievo strategico, potendo liberare massicce risorse militari – 4.000 uomini, oltre 500 veicoli e più di 30 velivoli, fra aerei e elicotteri – da spostare su altri fronti. Dall’altro, Parigi mantiene comunque il comando delle operazioni.
Ora, partecipare a una missione a comando francese rappresenta un equivoco politico foriero di gravi distonie sul piano operativo, che espone i militari italiani a forti rischi, giacché i nostri uomini saranno impiegati sul terreno senza tuttavia poter decidere del loro stesso impiego tattico.
Nonostante il capo di Stato Maggiore, Graziano, abbia spiegato che “non sarà una missione combat” e il nostro contingente avrà, sulla carta, il ruolo di addestrare le forze armate locali, di fatto pattuglierà i 600 chilometri di confine tra Niger e Libia e sarà inevitabilmente costretto ad impiegare la forza.
I jihadisti potrebbero colpire le forze italiane con attentati e attacchi diretti sulla base Madama e con ordigni posizionati sulle piste battute dai mezzi italiani. Un’altra incognita potrebbe pesare sulla missione e rendere inefficace il nostro posizionamento: i trafficanti potrebbero infatti facilmente aggirare il dispositivo italiano passando dall’Algeria. E questo mentre per bloccare in modo efficace i flussi migratori illeciti sarebbe stato sufficiente consegnare alla guardia costiera libica i migranti illegali soccorsi nel Mediterraneo per affidarne il rimpatrio alle agenzie ONU. È questo uno scenario che ricalca in ampia misura l’accordo del 2009 del Governo Berlusconi con la Libia, poi perfezionato dal Governo Monti nel 2012, entrambi purtroppo “dismessi” dai successivi governi.
Inoltre con il Niger l’Italia, nell’inerzia dell’UE, aveva firmato nel 2010 due accordi di cooperazione in materia di sicurezza e di contrasto all’immigrazione clandestina che stavano dando i loro frutti, anch’essi “sterilizzati” dalle politiche di Matteo Renzi.
Oggi, la miopia dell’esecutivo Gentiloni mette impietosamente a nudo la povertà di visione geopolitica e l’incapacità di elaborare strategie verso un’area di rilievo strategico per Roma. Per gli osservatori più acuti la sensazione è, infatti, che il premier e la diplomazia italiana si siano infilati in una pericolosa trappola: la missione, oltre a relegare il contingente italiano in un ruolo gregario, continuerà a favorire gli interessi francesi in Libia a scapito dei nostri.
Intervenire nel Sahel da ascari di Parigi ci porterà in scacchieri lontani dalle nostre priorità strategiche e, soprattutto, drenerà e usurerà forze che avremmo meglio potuto impiegare per stabilizzare la Libia, dove la nostra influenza appare inevitabilmente destinata a ridursi.
L’intervento nel Sahel, in definitiva, ridisegnerà le relazioni di potenza nella UE post-Brexit: la Francia rafforzerà il suo naturale ruolo di potenza garante, la Germania si affermerà, neanche troppo inaspettatamente, quale nuovo competitor dei transalpini, mentre l’Italia resterà a guardare e a gridare al destino cinico e baro. Se la Brexit doveva dischiudere all’Italia maggiori opportunità per contare di più, gli ultimi sviluppi dell’attualità internazionale suggeriscono che l’esecutivo Gentiloni e i suoi collaboratori non hanno saputo né individuarle, né tantomeno coglierle.

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* Pseudonimo di un gruppo di diplomatici italiani