Passato e futuro della non proliferazione. A che punto siamo? è il nuovo Dossier del Machiavelli, firmato da Massimo Amorosi.

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SOMMARIO ESECUTIVO

  • Il recente vertice tra il Presidente americano Donald Trump e il Capo Supremo nordcoreano Kim Jong-un ha attirato l’attenzione mondiale sul regime internazionale di non-proliferazione.
  • Nonostante le armi nucleari siano destinate a giocare un ruolo meno centrale nelle politiche di difesa e sicurezza degli Stati, viviamo già in una “seconda era nucleare” con dinamiche e rischi suoi propri.
  • I tradizionali strumenti e approcci alla non proliferazione, come quelli applicati dal Presidente americano Obama, non sono adeguati per far fronte alla potenziale instabilità che promana dalla seconda era nucleare.
  • Rischi particolari provengono dalle armi chimiche e biologiche, specialmente dal ricorso a queste tecnologie per scopi terroristici, nel momento in cui l’uso di sostanze tossiche è diventato drammaticamente più frequente in tempi recenti (non solo in Siria).
  • Si può valutare un ruolo per l’Italia nella complessa fase di transizione geopolitica che si è aperta, nella consapevolezza delle opportunità e dei limiti all’azione diplomatica del nostro Paese.
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    1. Le novità del vertice Kim-Trump

    Il recente vertice fra il leader nordcoreano e il Presidente statunitense a Singapore ha segnato uno spartiacque, e ciò a dispetto del clima di diffidenza che sembrava prevalere.

    I due Paesi tuttora non dispongono di meccanismi formali di comunicazione. I soli canali di dialogo bilaterale sono quelli che passano tramite la rappresentanza diplomatica della Svizzera a Pyongyang o attraverso il cosiddetto “New York channel” della missione nordcoreana presso le Nazioni Unite. Anche se la normalizzazione delle relazioni fra Pyongyang e Washington dipende in larga misura dai progressi sulla denuclearizzazione, i vincoli politici che precludevano un dialogo aperto e diretto stanno venendo meno.

    Com’è intuibile, l’avvio di contatti diretti e – aspetto non meno importante – il mandato conferito ai negoziatori dei rispettivi Paesi non garantisce un successo automatico. Profonde differenze di natura strategica restano, ma il paradigma sembra cambiato. Peraltro un tale approccio richiama quello che ha costituito per lungo tempo un modello per le trattative fra Stati Uniti e Unione Sovietica sulle armi nucleari e, più in generale, sul controllo degli armamenti: un’intesa politica di massima fra i leader per il conseguimento di determinati obiettivi e il potere concesso a burocrati e tecnici affinché questi potessero definirne i dettagli, compresi quelli più spinosi. Una metodologia che non escludeva possibili divergenze e interferenze politiche, ma che almeno assicurava passi concreti altrimenti impossibili senza il dialogo ad alto livello che ne aveva posto le basi.

    Il summit fra Trump e Kim, in questa ottica, anche se non sfociasse in un processo definitivo di denuclearizzazione, ha impresso una svolta nelle relazioni fra l’America e la Corea del Nord. Peraltro per volontà di due leader che a torto erano stati giudicati non idonei a cementare un clima di dialogo e forse anche di pacificazione. Ma per comprendere meglio il mutamento di paradigma che questo vertice ha portato con sé nel complesso mondo della non proliferazione, occorre volgere lo sguardo al passato.

    2. Armamenti nucleari: le dinamiche della Guerra Fredda e l’impronta di Obama

    Il nuovo trattato START siglato dagli Stati Uniti e dalla Russia nell’aprile del 2010, la potenziale ratifica americana del Comprehensive Test Ban Treaty (CTBT) e il crescente sostegno per il Fissile Material Cutoff Treaty (FMCT) formalizzano il declino dei programmi nucleari delle grandi potenze. Verosimilmente, le armi nucleari sono destinate a giocare un ruolo sempre meno centrale nelle politiche di difesa e sicurezza degli Stati.

    In termini di “proliferazione orizzontale”, solo un gruppo ristretto di Paesi ha acquisito armi nucleari: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica negli anni ‘40, il Regno Unito e la Francia negli anni ‘50, la Cina e Israele negli anni ‘60, l’India e il Sudafrica negli anni ‘70, il Pakistan negli anni ‘80, e la Corea del Nord negli anni ‘90. L’Iran, dal canto suo, sembra intenzionato a sviluppare un arsenale nucleare malgrado le pressioni internazionali esercitate sul regime teocratico. Inoltre, diversi governi che hanno ereditato armi nucleari (l’Ucraina) o le hanno sviluppate (il Sudafrica) hanno deciso di abbandonare i rispettivi arsenali, mentre la Libia ha posto fine alle attività, seppur rudimentali, che aveva avviato per disporre di una capacità nucleare. Con l’eccezione di Nuova Delhi e Islamabad, infine, non risulta che le nazioni in possesso di armi nucleari siano coinvolte in una corsa agli armamenti tale da innescare una crescita degli arsenali nucleari in termini qualitativi o quantitativi1.

    Si tratta, com’è evidente, di un numero ristretto di Stati, specie considerando il numero di Paesi in possesso di capacità scientifiche e industriali necessarie per realizzare armi nucleari: si prenda ad esempio il Giappone, dove è riemersa l’opzione dello sviluppo di un armamento atomico da parte di Tokyo nel contesto della crisi nucleare nordcoreana del 2002.

    In definitiva, però, è probabile che lo sviluppo da parte del Giappone di un deterrente nucleare avrebbe un effetto stabilizzante, da un lato sgravando Washington dall’onere di assicurare la sicurezza dell’alleato asiatico e, dall’altro, circondando Pechino di tre potenze nucleari, ossia la Russia, l’India, e appunto il Giappone. A monte, vi è la convinzione consolidata secondo cui la diffusione della bomba automaticamente ha conseguenze negative per la sicurezza. Ciò è solo parzialmente vero, se il criterio usato è quello della non proliferazione nucleare2. Altri criteri porterebbero a valutazioni diverse. Si tenga presente, infatti, che la Cina ha usato la bomba negli anni ‘60 per rompere con il Cremlino e, successivamente, per raggiungere un livello di parità con gli Stati Uniti, così come oggi l’armamento nucleare indiano costituisce un fattore di contenimento della crescente potenza cinese.

    L’India è oggi virtualmente una potenza nucleare legittima, a prescindere da ciò che stabilisce il Trattato di Non Proliferazione (TNP) del 1968. A conferma del fatto che il sistema globale che è sorto sulle ceneri della Guerra Fredda è, in larga misura, un sistema nucleare multipolare.

    ***

    Il discorso dell’ex Presidente Obama a Praga nel 2009 ebbe una vasta eco internazionale, che gli valse forse il Nobel per la Pace e che senza dubbio diede nuova linfa al movimento per il disarmo.

    Nella capitale ceca, Obama elencò tutti i tradizionali obiettivi dell’agenda dei tradizionalisti del controllo degli armamenti (che non a caso si concentrano nell’establishment del Partito Democratico americano): intavolare nuove trattative con Mosca per la riduzione degli arsenali nucleari nonché per la questione delle difese antimissili, persuadere il Senato americano a ratificare il trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari (CTBT), ricercare trattative per l’elaborazione del trattato che proibisce la produzione di materiale fissile per armi nucleari (FMCT), e infine il rafforzamento del TNP. Nell’agenda di Praga rientra comunque anche la tematica della sicurezza nucleare, iniziativa che da allora ha registrato riscontri positivi tramite i lavori dei Vertici sulla Sicurezza Nucleare di Washington, Seul e L’Aja.

    3. Le specificità della seconda era nucleare

    In questo contesto, l’ex inquilino della Casa Bianca ha voluto creare una connessione fra la proliferazione verticale e la proliferazione orizzontale, sulla base dell’assunto, in realtà irrealistico, secondo cui i pericoli della proliferazione nucleare potrebbero ridimensionarsi accelerando i processi di disarmo fra le grandi potenze. A dire il vero, un’attenta lettura del testo del TNP suggerisce che non proliferazione e disarmo non hanno meritato la medesima priorità: i tre sponsor del trattato – Regno Unito, Stati Uniti e Unione Sovietica – hanno concordato con una certa riluttanza ad inserire un vago riferimento ad un disarmo “generale e completo” (art. VI)3.

    Con un’analisi più accurata si nota però che i temi sollevati da Obama a Praga riflettono innanzitutto equilibri di politica interna piuttosto che l’esigenza di rivedere alcune dinamiche globali, marcando una distanza dalle politiche varate dall’amministrazione di George W. Bush. Queste, com’è noto, si erano materializzate con il ritiro di Washington dal Trattato ABM nel 2002 e con intese ad hoc che andavano ben al di là del TNP, quali la Proliferation Security Initiative (PSI). Le decisioni americane, quindi, sembravano isolate dai nuovi rischi che promanano dall’avvento di una seconda era nucleare: basti pensare che poche fra le nazioni dell’Asia collocano la non proliferazione in cima alle priorità di sicurezza nazionale.

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    Mentre gli Stati Uniti e la Russia continuano a ridurre i rispettivi arsenali, l’India e il Pakistan si stanno muovendo in una direzione diametralmente opposta. Entrambi i Paesi, infatti, stanno espandendo le loro capacità di produzione di materiale fissile nonché la gamma e il livello di sofisticazione dei mezzi di lancio. La competizione nucleare nell’Asia meridionale, non a caso, ha una complessità sua propria, per molti versi differente rispetto a quella che opponeva Mosca e Washington (che al suo picco nel 1985 aveva raggiunto un totale di più di 62.000 bombe). A differenza del periodo bipolare, la corsa agli armamenti nella regione ha un carattere tridimensionale, che ha al centro il fattore chiave costituito dall’arsenale nucleare cinese: l’India cerca di mettersi al passo con Pechino e il Pakistan a sua volta tenta di mettersi al passo con Nuova Delhi – anche se le scelte pakistane possono influenzare i piani indiani. Ad esempio, nell’aprile del 2012, l’India ha sperimentato con successo una nuova versione del missile a lungo raggio Agni, acquisendo la capacità di raggiungere le città settentrionali cinesi, comprese Pechino e Shanghai.

    A tutt’oggi, il numero di ordigni nucleari è significativamente più ridotto rispetto ai livelli della Guerra Fredda, ma si registra un incremento delle rivalità e delle tensioni in contesti nucleari. Queste rivalità e tensioni sono ancorate a dinamiche regionali ma possono avere un impatto globale.

    Non è un caso che il nuovo Trattato START firmato da Barack Obama e Dmitry Medvedev non abbia nulla a che vedere con i problemi connessi con la cosiddetta “seconda era nucleare”, posto che è finalizzato a prevenire un attacco russo di sorpresa contro l’arsenale missilistico di Washington. In tal senso, questo accordo presuppone un mondo ancora dominato dagli assunti della MAD (Mutual Assured Destruction). La sfida della seconda era nucleare, piuttosto, è quella di gestire un ordine internazionale più fluido dove le rivalità geopolitiche, soprattutto regionali, si innestano in un contesto nucleare. In questa prospettiva, potrebbe essere utile trarre delle lezioni dalla prima era nucleare, la cui data d’inizio, com’è noto, corrisponde al lancio dell’ordigno atomico su Hiroshima il 6 agosto 1945.

    4. I rischi chimici e biologici

    Quando le armi nucleari divennero disponibili quali strumenti di deterrenza nelle prime fasi del confronto bipolare, alcuni Stati – come la Francia e il Regno Unito – conclusero che non vi era più la necessità di affidarsi ai loro arsenali di armi biologiche (BW) per poter disporre di una capacità di ritorsione. Ciò nonostante, diversi governi non rinunciarono all’armamento chimico (CW) in loro possesso, tanto più perché, a differenza delle armi biologiche, questo aveva dimostrato di essere funzionale agli scopi bellici nel corso del primo conflitto mondiale, innanzitutto attraverso i tentativi intrapresi di rompere lo stallo della guerra di trincea. Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica tentarono di sfruttare a proprio vantaggio i progressi tedeschi nel campo degli agenti nervini nel più ampio contesto competitivo della Guerra Fredda. Quest’ultima, dunque, vide lo sviluppo non solo di armi nucleari e convenzionali, ma anche di armi chimiche.

    Tuttavia, nel primo periodo della Guerra Fredda, taluni Paesi mantennero attivi o ripresero i rispettivi programmi di guerra biologica, fra cui il Canada, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, mentre bisogna aspettare gli anni ’70 e ’80 per l’avvio del programma iracheno e di quello sudafricano. Gran parte di tali programmi erano mirati alla produzione di sistemi d’arma con effetti devastanti simili a quelli dell’armamento nucleare (all’interno quindi della dinamica di contrapposizione tra le due superpotenze), con l’eccezione di quello del Sudafrica, funzionale invece all’attuazione di strategie di assassinio e sabotaggio4.

    Contrariamente a quanto fece la maggioranza degli Stati parte della Convenzione sulle Armi Biologiche (BWC) del 1972, rispettando gli obblighi del trattato, l’Urss intensificò gli sforzi nel settore biologico militare ed espanse il proprio programma per fini offensivi. A tale scopo, i sovietici arrivarono ad impiegare decine di migliaia di persone e misero in piedi un’imponente infrastruttura ricorrendo agli ultimi sviluppi nel settore delle scienze della vita per creare agenti patogeni geneticamente modificati. L’esistenza del programma fu ufficialmente riconosciuta solo nel 1992 dall’allora presidente Boris Yeltsin.

    La Convenzione sulle armi biologiche e quella successiva sulle armi chimiche del 1993 (CWC) dovevano servire in particolare a prevenire un ulteriore sviluppo e uso di queste armi da parte degli Stati. Solo dopo la fine della Guerra Fredda, cominciano a cambiare le percezioni del rischio posto dalla proliferazione di tali tecnologie: intorno alla metà degli anni ‘90, un impiego terroristico di queste armi, specie di quelle biologiche, viene visto come una reale possibilità. Convenzionalmente si considera uno “spartiacque” l’attentato con il sarin alla metropolitana di Tokyo nel marzo 19955. In special modo dopo gli attacchi tramite lettere all’antrace negli Stati Uniti nell’autunno del 2001, il bioterrorismo (anche nella sua variante di agroterrorismo) ha acquisito una rilevanza sempre maggiore fra i rischi alla sicurezza nazionale, non solo a Washington.

    5. Conclusioni

    Lo strumento del controllo degli armamenti, concepito nei lontani anni cinquanta, ha l’assoluta necessità di essere rivitalizzato. Non trascurando peraltro che questo è stato “inventato” al di fuori degli ambienti governativi da personaggi lungimiranti come Don Brennan e Thomas Schelling per far fronte alla sfida principale di quel periodo, ossia la corsa agli armamenti.

    Siamo entrati in una complessa fase di transizione, non priva di rischi ed incognite, che tuttavia potrebbe concedere seppur limitati spazi di manovra. Paesi come Corea del Nord, Pakistan, e in parte l’Iran si astengono per il momento da una linea troppo aggressiva in ragione delle vulnerabilità insite nello stadio del loro sviluppo nucleare. Ma in coincidenza con la possibile maturazione di tali programmi, potrebbero essere ipotizzabili innovazioni strategiche tali da incrementare i rischi di una seria crisi nucleare. Parallelamente, il ricorso ad altre armi non convenzionali, come quelle chimiche, si è recentemente fatto più frequente, come testimoniano gli episodi riconducibili al perdurante conflitto siriano o quelli verificatisi a Kuala Lumpur e Salisbury, in taluni casi innescando confronti diplomatici particolarmente aspri fra le grandi potenze. Sullo sfondo, inoltre, permane lo spettro del terrorismo, che non si può escludere si materializzi un giorno con un “salto di qualità”.

    Nel complesso, la politica estera italiana è fermamente impegnata a rafforzare e ampliare il regime di non proliferazione. L’Italia deve però poter far valere le proprie istanze ai tavoli negoziali. E lo deve fare nella consapevolezza che il nostro Paese ha spesso cercato di colmare il divario fra ambizioni e realtà con una politica di “presenzialismo”, spesso accompagnata da rimostranze per essere stato emarginato dai consessi che contano (si ricordi, ad esempio, l’esclusione dalla riunione di Guadalupe, che decise lo schieramento degli euromissili).
    A nulla valgono gli appelli alla solidarietà europea, che ormai si sta indebolendo sempre più sotto la pressione degli interessi nazionali dei singoli Stati.

    Per poter far pesare le proprie ragioni, l’Italia dovrebbe utilizzare gli strumenti che la rendono più efficace e competitiva, cioè quelli economici. Come nei riguardi dell’Iran, nel qual caso gli interessi nazionali italiani sono per lo più di natura economica, anche se non mancano considerazioni più prettamente geopolitiche e strategiche.

    . Note

    1. Cfr. James J. Wirtz and Peter R. Lavoy (Edited by), Over the Horizon Proliferation Threats, Stanford University Press, 2012.
    2. Alcuni scienziati politici, come John Mearsheimer, sottolineano che un processo controllato di proliferazione può in taluni casi “stabilizzare” la politica internazionale. Nel medesimo filone si colloca la posizione di Kenneth Waltz.
    3. Cfr. C. Raja Mohan, Prague as the Nonproliferation Pivot, The Washington Quarterly, Spring 2013.
    4. Cfr. Alexander Kelle, Kathryn Nixdorff, Malcolm Dando, Preventing a Biochemical Arms Race, Stanford University Press, 2012.
    5. Prima di ricorrere al sarin il 20 marzo del 1995, la setta Aum Shinrikyo tentò di acquisire anche armi biologiche. Nell’aprile del 1990, provò ad attaccare il Parlamento giapponese con la tossina del botulino e tre anni dopo a Tokyo fece un ulteriore tentativo con le spore di antrace, in tutti i casi senza successo.

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