La declinazione che il termine crisi ha assunto nell’ultimo decennio è legata a doppio filo alle questioni economiche. Nella vulgata la crisi viene identificata con quanto avvenuto nel 2008, chi ha una memoria storica più lunga ricorda la grande crisi del 1929 ma, in linea con lo spirito del nostro tempo che si limita a criteri economici per valutare la società, la stragrande maggioranza delle persone tende ad associare la crisi solo con l’economia e la finanza dimenticando o proprio rimuovendo altre declinazioni terminologiche.
Non è necessario citare Oswald Spengler o Samuel Huntington o la straordinaria letteratura del Finis Austriae prodotta negli anni di crepuscolo dell’Impero Austro-ungarico, per sottolineare una diversa accezione che la parola crisi può assumere. Non serve tirare in ballo Augusto Del Noce per certificare il declino dell’ambito spirituale e dei valori ai nostri giorni, basta osservare il proliferare di determinati comportamenti per rendersene conto. L’ossessione dell’odierno, del tutto subito, e il primato dell’economia sul breve periodo, che sancisce l’incapacità di costruire progetti duraturi con ricadute positive a lungo termine, determinano una serie di stravolgimenti negli equilibri sociali.
Una delle problematiche principali è la crisi di natalità che ha portato dal 2007 in poi a un vero e proprio tracollo delle nascite nel nostro paese che sono passate da 560.000 l’anno a 440.000. Se si osserva il grafico che fotografa il declino, la sensazione è impressionante; a ciò si aggiunga che il tasso di fecondità (numero di figli per donna) è sceso da 1,46 figli nel 1995 a 1,32 diventando il più basso in Europa. Una vera e propria emergenza con ricadute enormi che, sebbene sia particolarmente accentuata in Italia, non riguarda solo il nostro paese ma tutto l’Occidente dove è in atto una decrescita dei nuovi nati. Il motivo non sono solo le difficoltà economiche ma è anche culturale e di mentalità come testimonia il calo nei paesi scandinavi dove, come spiega il Sole24ore “nel 2017 in Finlandia e Norvegia, i due Paesi considerati più felici nel mondo, il tasso di fecondità totale è scivolato ai livelli che non si vedevano dai primi anni Sessanta del secolo scorso”.
Per risolvere questa situazione la risposta che propongono le forze progressiste è aumentare il numero di immigrati; così facendo, dicono, si compenserebbe il calo di nascite e si evita una netta diminuzione della popolazione. Si tratterebbe di un palliativo, una soluzione tampone che porterebbe ad accrescere altre problematiche per esempio di carattere occupazionale e non sarebbe una risposta strutturale ma temporanea. Ciò che manca all’Occidente (e in particolare al nostro paese), è una seria politica di sostegno alla natalità, serve una maggiore educazione e sensibilizzazione delle giovani generazioni su questo tema e seri incentivi per i cittadini italiani che mettono al mondo un figlio. È necessario perciò un intervento strutturato che incida sia da un punto di vista economico che di mentalità e culturale.
Francesco Giubilei, saggista, è presidente di Nazione futura e delle case editrici Giubilei Regnani e Historica.
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