Merita rileggere l’art. 101 della Costituzione: “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Esso esprime il principio che la funzione giurisdizionale non deve rispondere ad altri interessi se non a quelli del popolo sovrano, che trovano riconoscimento ed espressione nella Costituzione e nelle leggi vigenti.

La soggezione del giudice alla legge significa che: 1) ogni procedimento giurisdizionale deve essere fondato su una specifica norma di legge; 2) il giudice ha l’obbligo di conoscere la legge; 3) il giudice non è in alcun modo autorizzato a rifiutarne l’applicazione. Il rapporto di distinzione e di gerarchia tra legge e giudice è la base più autentica di uno Stato di diritto: espressione di un Paese moderno, liberale e non dispotico. Il parlamento fa le leggi, i giudici le applicano. Dunque ai giudici non è dato “creare” nuovo diritto. Eppure questo semplice postulato è continuamente disatteso. Certo, una qualche attività interpretativa è connaturata alla funzione giurisdizionale. Ma il fenomeno cui assistiamo in Italia di provvedimenti giudiziari che disattendono la legge, cioè la disapplicano nel caso concreto, creativi essi stessi di nuove norme, sembra superare ogni fisiologia di sistema e può mettere a rischio il principio della separazione dei poteri, su cui si è fondato tutto il moderno costituzionalismo. Emblematico il recente caso dell’ordinanza del GIP di Agrigento nel caso Sea Watch.

Eppure il nostro sistema costituzionale – a differenza, ad esempio, degli Stati Uniti – nega che la legge possa venire disapplicata dal giudice. Se il giudice ritiene che ci sia un contrasto con la Costituzione ha un’unica strada da seguire: chiedere che si pronunci, e in via esclusiva, la Corte Costituzionale. Solo la Corte è giudice delle leggi.

Il paradosso è che è stata proprio quest’ultima a inventare i due strumenti che hanno reso possibile la disapplicazione della legge da parte dei giudici: il primo è l’interpretazione conforme a Costituzione; il secondo è rinvio al catalogo aperto dei diritti fondamentali CEDU e alla loro interpretazione da parte della Corte di Strasburgo.

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Quanto al primo, già a partire dagli anni ’90, la Corte costituzionale ha sollecitato i giudici ad utilizzare gli strumenti interpretativi che consentissero loro di trarre direttamente dal testo normativo la norma costituzionalmente conforme, senza sollevare questione di costituzionalità. Il che ha aumentato la “politicità” del giudice, facendo venire meno la visione di questo come “bocca che pronuncia le parole della legge”. Quanto al secondo, si è fatta strada l’idea che, in base all’art. 117 primo comma Cost., vi sia un vincolo interpretativo per i giudici italiani alla giurisprudenza di Strasburgo, facendo diventare i diritti fondamentali assoluti e prevalenti su tutto. Un’interpretazione estrema e irragionevole, poiché i diritti fondamentali devono sempre essere bilanciati sia con gli altri diritti fondamentali, sia con l’interesse generale. Nel caso degli sbarchi (ad esempio vicenda Nave Diciotti), diversamente ragionando, si arriverebbe a imporre alle autorità di governo italiane di fare entrare chiunque, pur sprovvisto di documenti e non identificato, si presentasse alle frontiere.

Con questa deriva la legge del Parlamento – cioè di chi dal popolo sovrano ha il mandato a legiferare – diventa un inutile orpello, applicabile o disapplicabile a piacimento. Ma la politica è esercizio di un potere libero di scelta dell’obiettivo e della finalità che vuole perseguire. La sua investitura sta nella responsabilità, appunto politica, che è propria della democrazia rappresentativa. Dunque, nel raggiungimento delle finalità volute a maggioranza dagli elettori. Cioè dal popolo sovrano. In democrazia è il popolo che sceglie, attraverso i propri rappresentanti, le norme che devono essere approvate e alle quali obbedire. Non i giudici che non sono eletti da nessuno e che non sono responsabili nei confronti di nessuno. Negare in questi modi la dignità dell’espressione della volontà popolare, cioè della legge, è angoscioso. Il rischio è che lo Stato di diritto si trasformi in uno “Stato dei giudici”. Il tradimento dell’art. 101 Cost. è dietro l’angolo e il pericolo per la democrazia elevato.

 

Ginevra Cerrina Feroni, professoressa ordinaria di Diritto pubblico comparato all’Università di Firenze, è membro del Consiglio scientifico del Centro Studi Machiavelli.