Lo scorso 10 settembre la senatrice a vita Liliana Segre, durante il dibattito sulla fiducia al Conte bis, ha ribadito la richiesta di una commissione d’inchiesta contro l’«hate speech», o «discorso d’odio». Sarebbe questa una forma di reato ideologico per il quale un’opinione – pur non ricadendo nelle fattispecie di ingiuria o diffamazione – viene considerata «offensiva» e dunque penalmente rilevante. Il premier Conte ha accolto con favore la richiesta della Senatrice.

Nel nostro ordinamento molti reati d’opinione sono stati abrogati o è ne stata ridotta la pena a sola sanzione pecuniaria, come nel caso del vilipendio alla bandiera o delle Forze Armate. In altri casi si è riformulata la legge: ad esempio nel caso della violenza a sfondo razziale l’originale «incitamento» è divenuto «istigazione», una fattispecie di difficile definizione. Più recentemente si sono affermati nuovi reati d’opinione, come quello di «negazionismo». In Italia al momento è attivo un regolamento dell’AgCom di contrasto all’«hate speech» che si avvale anche di strumenti di IA per la repressione. L’autorità ha già emesso le prime diffide verso alcune testate.

La spinta a sanzionare i «discorsi d’odio» proviene dall’attivismo transnazionale di ONG, lobby e think tank di area liberal. Recentemente anche lobby e comunità islamiche si stanno muovendo per far approvare il reato di «islamofobia» esteso anche alla critica all’immigrazione islamica in Europa. Apripista gli USA, dove fin dagli anni ’80 dispositivi giurisprudenziali hanno progressivamente esteso le fattispecie delle «parole d’odio» lentamente divenuti un doppio standard giuridico, per il quale – per esempio – è legittimo deprecare o minacciare la categoria dei «maschi etero» o dei «bianchi», mentre vengono considerati reato critiche o espressioni di insofferenza verso minoranze sessuali, minoranze etniche o donne.

In diversi ordinamenti europei è considerato «discorso d’odio» anche la critica a istituzioni «progressiste» o l’ironia sul fascismo. Ad esempio in UK è proibito biasimare il c.d. «matrimonio gay» o «sbagliare sesso» per i transessuali, e le cronache riportano casi di arresti per «hate speech», il più famoso dei quali, lo scorso anno, riguardò un ragazzo che per scherzo insegnò in un video a un cane ad alzare la zampa in una sorta di «saluto fascista». Il video divenne virale e il giovane venne condannato a sei mesi di carcere. Extra legem invece è la deriva per la quale chi esprime opinioni «d’odio», definite «tossiche», anche se non penalmente perseguibile è tuttavia soggetto a varie ritorsioni al limite del persecutorio: perdita del lavoro, di contratti o di riconoscimenti pubblici, decurtazioni di stipendio, trasferimenti punitivi, arresti e perquisizioni di polizia. Tutte azioni per le quali i ricorsi in sede giudiziaria normalmente danno esito negativo.

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Banco di prova nonché vero e proprio esperimento sociale di «addestramento» all’accettazione di queste regole arbitrarie è inoltre Facebook, dove di recente sono state applicate delle linee guida nelle quali è ammessa l’esistenza di un doppio standard: insulti e minacce nei confronti di bianchi, maschi o esponenti politici «di destra» sono considerati legittimi, mentre critiche nei confronti di donne, altre razze e minoranze varie sono suscettibili di sanzione non contestabile. Questo atteggiamento trova il suo puntello ideologico nella c.d. «discriminazione positiva», per la quale sarebbe giusto derogare al principio d’uguaglianza formale fra individui per fornire vantaggi sostanziali a chi appartenga a una «categoria discriminata». Recentemente nello scambio di insulti fra opposte «tifoserie» nel caso Sea Watch, accuse e ingiurie contro il capitano Carola Rackete, sono state giudicate più gravi di quelli all’indirizzo di Salvini. Secondo diversi opinionisti la Rackete, in quanto donna, apparterrebbe a categoria «svantaggiata» e gli insulti nei suoi confronti sarebbero «sessisti». Di conseguenza, questi commentatori auspicavano che dispositivi di «discriminazione positiva» venissero importati nel codice penale italiano introducendo così ope legis una disparità di trattamento, nella fattispecie, fra gli insulti proferiti da un uomo verso una donna o viceversa.


Emanuele Mastrangelo è redattore capo di “Storia in Rete”

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Redattore del blog del Centro Studi Machiavelli "Belfablog", Emanuele Mastrangelo è redattore capo di "CulturaIdentità" ed è stato redattore capo di "Storia in Rete" dal 2006. Cartografo storico-militare, è autore di vari libri (con Enrico Petrucci, Iconoclastia. La pazzia contagiosa dellacancel cultureche sta distruggendo la nostra storia e Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione).