Donald Trump rischia di essere messo in stato d’accusa. La Speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha annunciato l’avvio di un’indagine formale per impeachment contro il presidente, a causa della controversa telefonata da lui avuta a luglio con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Una telefonata in cui Trump ha chiesto al suo omologo di indagare sull’attuale candidato alla nomination democratica, Joe Biden. Quella che dunque si profila all’orizzonte è un’accusa di abuso di potere. Un’accusa che potrebbe tuttavia rivelarsi un boomerang per gli stessi democratici.
In primo luogo, il partito dell’Asinello non detiene la maggioranza al Senato, dove è necessario un quorum di due terzi dei voti per arrivare a un verdetto di colpevolezza: una soglia difficilmente raggiungibile, anche in caso si verificasse qualche defezione repubblicana.
In secondo luogo, la Costituzione garantisce al presidente ampia autorità e discrezionalità in politica estera. Dimostrare un abuso di potere o un atto scorretto in quest’ambito risulta quindi particolarmente difficile.
In terzo luogo, se passa la linea dei democratici su questa questione, chi rischia di rimetterci maggiormente è proprio lo stesso Joe Biden che si è comportato in un modo similare all’attuale presidente. Come da lui stesso pubblicamente raccontato l’anno scorso, tra la fine del 2015 e il marzo del 2016 – da vicepresidente americano in carica – esercitò pressioni sull’allora presidente ucraino, Petro Poroshenko, per ottenere il siluramento del procuratore generale Viktor Shokin. In particolare, Biden arrivò a minacciare di tagliare un miliardo di dollari in aiuti economici americani a Kiev, qualora non fosse stato accontentato. È senz’altro vero che quel procuratore fosse un personaggio controverso e che molti ne chiedessero all’epoca la destituzione. Fatto sta che, mentre Biden esercitava quelle pressioni, Shokin stesse indagando per corruzione su Burisma Holdings: società energetica ucraina, nel cui consiglio d’amministrazione sedeva il figlio dello stesso Biden, Hunter. Quest’ultimo aveva assunto l’incarico nel maggio del 2014, nello stesso periodo, cioè, in cui suo padre veniva nominato da Barack Obama come figura di raccordo tra Washington e Kiev, all’indomani dell’annessione russa della Crimea: un ruolo che conferiva all’allora vicepresidente americano un enorme potere nelle dinamiche politiche ucraine. Già all’epoca la stampa americana ravvisò quindi un problema di opportunità politica nell’incarico di Hunter in Burisma. Un problema su cui si è venuto poi a innestare un forte sospetto di conflitto di interessi, viste le successive pressioni di Biden per far silurare Shokin.
Infine, la fretta con cui Nancy Pelosi ha annunciato l’indagine suscita più di una perplessità. Anche perché questa mossa è avvenuta senza attendere né la diffusione della trascrizione della telefonata con Zelensky né l’audizione alla Camera del Director National Intelligence, Joseph Maguire. Senza poi trascurare che la Speaker si fosse per mesi tenacemente opposta a quelle frange interne al Partito Democratico che chiedevano l’impeachment contro Trump sul caso Russiagate. Non è pertanto del tutto escludibile che, con questa mossa, Nancy Pelosi abbia voluto appositamente accontentare le frange più oltranziste del suo partito, con l’intento machiavellico di mandarle verso un non improbabile fallimento politico.
Stefano Graziosi è corrispondente de “La Verità”
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