Giornalista e reporter di razza che ha operato in prima persona negli scenari più caldi degli ultimi tempi, dall’ex Jugoslavia all’Afghanistan, Fausto Biloslavo si è visto recentemente negare la parola all’Università di Trento, dove era previsto un convegno sulla Libia, paese che il giornalista conosce bene. Un collettivo di sinistra, rispolverando lo slogan «Fuori i fascisti dall’Università», si è mobilitato in forze riuscendo a far saltare l’incontro. La colpa di Biloslavo? La sua militanza con il Fronte della Gioventù risalente a 40 anni fa e il suo non essere allineato al “politicamente corretto”. Mettiamoci pure che le inchieste del reporter portarono negli anni ’90 a smascherare alcuni “infoibatori” ancora vivi in Slovenia e Croazia (che percepivano spesso una pensione dallo Stato italiano) e si può ben capire come la sua figura possa risultare indigesta agli alfieri del “pensiero unico” antinazionale, progressista e globalista.

Per chi conosce il mondo accademico, siamo di fronte a uno scenario per niente nuovo. Numerose facoltà sono da decenni egemonizzate dai movimenti di sinistra, e l’agibilità culturale e politica di chi si discosta dal progressismo imperante è messa a repentaglio quotidianamente. Professori (pensiamo ancora una volta all’eclatante caso-Gervasoni) e ricercatori devono sempre pesare le parole per non urtare i “padroni del discorso” che, come è accaduto per Biloslavo, sono pronti a negare la libertà di opinione in nome dei loro sogni di rivoluzione. Proprio nella facoltà di sociologia di Trento nacquero a le Brigate Rosse, i cui esponenti, anche non pentiti, trovano ancora oggi tranquillamente spazio per presentazioni e conferenze negli atenei italiani.

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Si tratta di un’egemonia conquistata nel tempo con una precisa strategia, in cui il ’68 fu uno dei momenti fondamentali. Come ha scritto Veneziani, «l’esito principale del ’68, la sua eredità maggiore, fu l’affermazione dello spirito radical, cinico e neoborghese. Il ’68 si era presentato come rivoluzione antiborghese e anticapitalista ma alla fine lavorò al servizio della nuova borghesia, non più familista, cristiana e patriottica, e del nuovo capitale globale, finanziario. Attaccarono la tradizione che non era alleata del potere capitalistico ma era l’ultimo argine al suo dilagare. Conseguenza diretta fu la nascita e lo sviluppo del Politically correct, il bigottismo radical e progressista a tutela dei nuovi totem e dei nuovi tabù. Antifascismo, antirazzismo, antisessismo, tutela di gay, neri, svantaggiati».

Il rischio che corriamo oggi è di fare la fine delle università anglossassoni, dove gli studenti “di destra” stanno sparendo e il politicamente corretto egemonizza corsi, libri e lezioni. La cultura è tale solo se animata da dibattito e confronto, c’è ancora qualcuno pronto a lottare per una libertà che sia vera e profonda e non parola vuota che nasconde un’orchestra che suona sempre la stessa musica?


Francesco Carlesi, storico, è dottorando di ricerca in Studi Politici all’Università Sapienza.