L’inizio degli anni ’70 del Novecento, con la crisi petrolifera, è considerato da tutti gli storici dell’economia come la fine di una stagione di forte espansione economica ed industriale che aveva interessato i Paesi del mondo occidentale e non solo. Entrava in crisi un processo che aveva visto l’accelerazione senza precedenti dei tassi di sviluppo industriale e si apriva una fase caratterizzata da un ridimensionamento del settore produttivo. Ridimensionamento che ha colpito intere aree industriali soprattutto dei paesi occidentali, come il nordovest della nostra penisola e il suo triangolo industriale. Ad ogni modo è dalla seconda metà degli anni Ottanta, con le nuove forme di divisione del lavoro che le grandi e medie imprese hanno iniziato ad adottare, che si può realmente notare l’inizio di una lunga fare di crisi dell’industria.
Buona parte delle grandi società iniziò il processo, in alcuni casi non ancora terminato, di separazione delle diverse fasi della loro attività produttiva localizzandole in luoghi lontani, prevalentemente fuori i confini nazionali. Quindi la progettazione e la produzione, la distribuzione e la vendita si sono frammentate e trasferite altrove con il chiaro obiettivo di massimizzare i guadagni facendo leva sui minori costi di produzione, in modo particolare per costi inferiori di manodopera. Questa prima forma di riorganizzazione produttiva ha rappresentato senza dubbio un vantaggio per talune imprese, ma ha dato il via ad una fase di disfacimento sociale ed economico di interi territori.
L’infinita fase dei processi di riorganizzazione ha significato anche processi di precarizzazione del lavoro, flussi migratori in uscita di intere famiglie, spopolamento di piccoli centri che gravitavano direttamente o indirettamente attorno al polo industriale. Discutere quindi di deindustrializzazione vuol dire parlare di desertificazione di interi territori non adeguatamente coinvolti nelle nuove aziende dei servizi e della tecnologia, significa parlare di uomini e donne che lasciano i loro paesi e di maestranze che perdono la conoscenza e la tecnica acquisita in anni e anni di lavoro. Questo, ovviamente con il defilarsi sempre più del ruolo dello Stato, preda ormai del timore di agire, come se fosse sempre portatore di disastri, ha portato alla formazione di nuove diseguaglianze, non solo su base sociale, ma soprattutto di natura geografica e territoriale.
Mentre noi scriviamo il governo Conte II è alle prese con una delle crisi industriali più importanti degli ultimi anni: parliamo ovviamente del sito siderurgico più grande d’Europa, cruciale per la sua produzione d’acciaio per l’intero sistema economico ed industriale nazionale. La produzione dello stabilimento dell’ex Ilva copre circa il 70% del fabbisogno nazionale di acciaio, la chiusura della fabbrica implicherebbe, come ha dichiarato il professor Sapelli a formiche.net, di regalare «in mani estere e spesso in competizione con noi in molti settori, il controllo del prezzo di questo elemento fondamentale per ogni produzione industriale».
La crisi dell’ex Ilva sembra essere legata alla questione dello scudo penale inserito nel 2015 dall’allora governo Renzi, ma la questione da evidenziare in particolare sono altre. Si palesa la totale incapacità da parte delle istituzioni di far fronte alla tutela dei nostri interessi, sia davanti alla totale noncuranza di una società di rispettare gli accordi sottoscritti, vedasi caso Whirlpool, o casi in cui una multinazionale utilizza la scusa dello scudo penale per tenere sotto scacco un intero paese, la questione non cambia poiché le nostre istituzioni operano come un banalissimo arbitro, super partes, che non interviene mai in maniera incisiva. Non solo abbiamo la necessità di non far chiudere Taranto per questioni industriali e di desertificazione del Meridione, ma soprattutto abbiamo la necessità che lo Stato ritorni ad essere attore principale dell’economia, che non vuol dire collettivizzazione e stalinismo, ma vuol dire guardare ad un’economia mista che ha caratterizzato la storia nel nostro paese con punte di vera eccellenza.
Francesco Guarente, consulente del lavoro, è sindacalista UGLM.
Scrivi un commento