Se c’è una cosa odiosa del pensiero unico è il suo potere di dare alle parole i significati più comodi, a seconda dell’uso politico più consono. Così è stato verso termini ormai in disuso comune (compreso per il sottoscritto, il quale non ha certamente la pretesa di non essere un uomo del proprio tempo, influenzato dal proprio contesto storico). Così è, ad esempio, per la parola “Nazione”, sostituita da “Paese” ormai in pianta stabile nei linguaggi mediatici da una buona quarantina d’anni.
Il motivo è ovvio: mentre “Nazione” si riferisce ad una comunità definita in termini non solo linguistici, ma anche etnici e culturali, “Paese” è un oggetto talmente generico che può significare tutto come nulla, ma in misura maggiore risulta utile ad essere identificato con la territorialità. Non occorre una mente geniale per comprendere quanto una terra possa essere abitata da tutti, non ci vuole particolare arguzia per capire quanto una Nazione abbia al contrario dei requisiti più forti per il gruppo umano che ha la fortuna di costituirla.
Qualche giorno fa Corrado Augias, su Repubblica TV, ha riproposto per l’ennesima volta il dogma tanto caro alla cultura dominante di questa Nazione (ogni tanto voglio scriverlo anche io): quello tra nazionalismo e patriottismo. Citando una delle tante fonti che negli ultimi 30 anni ha provato a rendere oggettiva la distinzione (Maurizio Viroli, Per amore della Patria), il discorso che emerge è sostanzialmente quello di un amore per la propria patria che avrebbe la pretesa di essere più etico, più genuino, più buono, in contrapposizione al nazionalismo malvagio, oppressivo, ovviamente razzista. Un pensiero, quello di Viroli, che è stato contestato, direttamente o meno, da accademici certamente non identificabili quali pericolosi fascisti, come Ernesto Galli della Loggia o Emilio Gentile. E che ha visto invettive ancora più dirette, come quelle del professor A. James Gregor.
È curioso poi notare quanto tale presunta differenza sia ben praticata in tutti i Paesi usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale (Italia, Germania e Giappone) e che al tempo stesso venga stigmatizzata qualsiasi potenza che non si dimostri disponibile alle visioni del sistema globalizzato e ordoliberista (Russia).
Ma in cosa consisterebbe poi questo patriottismo così gentile, lontano dalle malvagità nazionalistiche? Nel coltivare gli elementi unificanti della propria comunità, insegnandoli alle future generazioni? Giammai, sarebbe discriminante nei confronti degli stranieri. Nel diffondere la propria cultura nel mondo? Sì ma senza esagerare, in fondo siamo tutti uguali e guai a pensare di poter amare sé stessi un pochino di più. Magari potrebbe risiedere in una politica di ampio respiro a livello mondiale, basata su un proprio ruolo nella realtà contemporanea? Per carità, sarebbe aggressivo almeno quanto un intervento militare autonomo, considerato a prescindere foriero di ingiustizie e di violenza. Oppure si potrebbero sommare tutti questi fattori e sintetizzarli meglio nella parola “ambizioni”? Cerchiamo di non essere ridicoli, noi siamo italiani e non abbiamo diritto a coltivarne. Meglio essere realisti rimanendo immobili, saremo certi di non combinare disastri. Seguendo lo schema -modello “nazione straniera a caso” saremo altrettanto certi di non rimanere per l’ennesima volta indietro.
Cosa rimane? Per certi l’amor di Patria è una sorta di attaccamento teorico senza nulla di pratico. Si ama la Patria quando… non si fa nulla. Diversamente c’è sempre il rischio di essere razzisti, aggressivi, inumani e ovviamente fascisti. Se tutto va bene, amare la Patria è tenere pulita la propria città, o eseguire diligentemente la raccolta differenziata. Tutto il resto, si sa, è roba da criminali.
Stelio Fergola, direttore responsabile di “Oltre la Linea”, è autore di vari saggi tra cui “Riprendersi la vittoria. Perché gli italiani non devono dimenticare la Grande Guerra”.
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