“Sovranismo” è una parola che si ritrova ormai ininterrottamente sui titoli di testa dei più importanti giornali del mondo occidentale, eppure, tra mistificazioni, critiche ed apologie, la definizione di questa categoria politica continua a sembrare sfuggente e polimorfica. C’è chi accusa i sovranisti di pericolose tendenze autocratiche e chi, di contro, tenta di ricondurli entro le storiche categorie di destra e sinistra. Un’analisi politologica del fenomeno, tuttavia, non può evitare di definire questo insieme di formazioni politiche attraverso la lente dell’Identità, vero fulcro del movimento, che accomuna i sovranisti dal Bel Paese a San Paolo del Brasile, da Londra a Parigi.
Sebbene i movimenti sovranisti nazionali appaiano fortemente caratterizzati nelle proposte pratiche dalla condizione del paese cui afferiscono, una cosa li accomuna tutti, vale a dire il ritorno di un’ottica fattuale basata sull’istinto politico della comunità nazionale. Il fenomeno politico, per come lo descrisse il giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt, si verifica laddove un gruppo umano si riconosca in una affermazione esistenziale della propria forma di esistenza. In questo senso, il politico rappresenta la presa di coscienza, da parte di una comunità di persone, di costituire un gruppo distinto, che risponde alla definizione di “noi”, di contro ad altri gruppi umani, che costituiscono la sfera dell’”altro”. Il sovranismo, insomma, riconduce l’umanità a quella dialettica tra amico e nemico che le teorie internazionaliste hanno tentato, con poco successo, di cancellare, laddove – si badi bene – il nemico non rappresenta per forza un qualcosa da combattere e ancora meno da disprezzare, ma semplicemente il risultato di un processo di riconoscimento che individua un qualcosa d’altro, di straniero.
Riconoscere una comunità di valori distinta costituisce, oltre che il centro dell’istanza sovranista, il motivo di un’implicita opposizione tra sovranismo e orizzonte liberale. La grande Humanitè indistinta dei philosophes si va frammentando in segmenti che trovano il loro fattore di definizione in quelle identità culturali che si è tentato a lungo di cancellare. Nell’orizzonte della comunità che si definisce in base ad una convergenza di valori ed intenti si va a ricostituire, ancora in maniera inconsapevole, la sfera pubblica della politica, il concetto di interesse nazionale, il senso comunitario e non esclusivamente individuale della libertà, in una parola sola, il demos. Come già molti hanno sottolineato, in primis Schmitt, Mouffe e De Benoist, la democrazia non trova il suo fondamento nella libertà individuale dei cittadini, quanto nell’omogeneità valoriale e nell’uguaglianza sostanziale del corpus civico. La democrazia è quel sistema – l’antichità insegna bene – che esiste solo dove si verifica l’omogeneità di singoli in un popolo e dunque dove esiste il fenomeno politico. Il concetto della volontà popolare, fondamento della democrazia, non può esistere in maniera scissa da una sfera pubblica e contraddistinta.
In questo senso è il sovranismo ad essere, specie nella sua manifestazione populista, democratico in maniera radicale, mentre è lo schieramento liberal-progressista a mostrare tendenze pericolosamente autoritarie. Sono le forze cosiddette liberal a configurarsi come le principali attrici della svalutazione della democrazia, in quanto artefici della migrazione del potere dagli Stati verso organismi transnazionali e grandi attori non statuali come multinazionali e fondi di investimento. La critica che accosta il Sovranismo ai totalitarismi del passato, che si giova esclusivamente dell’approccio esteticamente più muscolare del sovranismo, non è un qualcosa di sostanziale quanto di esclusivamente narrativo. La narrativa progressista, ormai abilissima a distruggere l’avversario tramite una reductio alle pagine buie della nostra storia, continua ad essere la narrativa dominante e, nonostante il palese scollamento dell’élite che la ha tessuta dalla comunità nazionale, è (e sarà) ancora determinante negli equilibri politici futuri.
Mai come adesso, da parte sovranista, esiste la necessità di conquistare posizioni narrative da cui dipingere l’immagine reale del sovranismo, e cioè quella di unico argine alla svalutazione del concetto democratico. Presupposto fondamentale resta la costruzione di una classe, dirigente ed intellettuale, che possa mettere in atto una contro-egemonia dando finalmente l’assalto alla grande roccaforte culturale della sinistra progressista, ritagliando spazi di respiro sempre più ampi. Una parte costruens, insomma, a cui si dovrà aggiungere una parte destruens, con la critica sistematica delle ragioni progressiste, che porti alla luce del sole il pericolo per la democrazia che questa élite liquida di “senza patria” rappresenta, andando a smascherare quelli che, per la maggior parte degli Europei di oggi, non sono nient’altro che incubi travestiti da sogni.
Studia la comunicazione politica, la narrazione, la capacità di creare miti e simboli per comprendere fino a che punto questo velo sia in grado di mascherare la realtà dei fatti. Proviene dal mondo del giornalismo, incubatore assieme all'università dei grandi miti post-moderni.
Mah … se si comprendesse (e si facesse) il significato vero del motto dell’UE… “Unita nella diversità” coglieremmo due piccioni con una proverbiale fava: costruzione sovranazionale sì, Europa, ma delle nazioni.
Nazione è concetto diverso da quello di stato: il primo parla di identità antropologiche, culturali, linguistiche, storiche ecc.
E la sovranità che passa alla UE, necessaria per avere un’unità di direzione e dall’ampiezza e profondità da discutere (certo, ci mancherebbe! ma per fare non per disfare!) si articolerebbe in base a una costituzione che avrebbe nel principio di sussidiarietà la propria stella polare.
Europa federale, cioé.
Non succederà.
Maggiormente probabile o 1. il raggelarsi nei confini definiti ai tavoli della “pace” (guidati dai due Titani usciti vincitori, accompagnati dai loro satelliti al termine del secondo conflitto mondiale, il secondo suicidio europeo nel tragico ‘900), cioé all’interno di costruzioni statuali (che fortunatamente in Italia tende a coincidere con la nazione, complice la geografia: mare tutt’attorno e Alpi a Nord) e che destina ciascuno staterello europeo a giocare un ruolo secondario nella polarizzazione delle forze che si va dispiegando (tra il number one e il celeste impero) o 2. una confederazione di tipo neo-carolingio franco-germanica in cui se Italia vorrà/saprà … “tra moglie e marito”, dice quello, “a volte serve l’amante…”
Quanto sopra non avrebbe cioé molto a che fare con lo sterile, per chi scrive, contraddittorio – comunque cifra d’Europa anche questa attitudine al confronto/conflitto (che rischia di farsi distruttivo), tra internazionalismo e sovranismo.
Anche perché altre cifre d’Europa sono pure quelle d’essere uno spazio-tempo aperto e dinamico: dove comincia Europa? Dove finisce Europa?
Non sono forse gli US of A un’espressione dello spirito di esplorazione, ricerca, anche di volontà di potenza europei?