I recenti eventi in Libia e in Iraq rappresentano importanti moniti per l’Italia, perennemente azzoppata in politica estera dal suo complesso d’inferiorità da “media potenza” e dal pacifismo ideologico.
In Libia il Governo di Accordo Nazionale (GAN) guidato da Fayez al-Sarraj ha stretto importanti accordi con la Turchia, dove il Parlamento ha anche autorizzato il Presidente Erdoğan a inviare truppe a sostegno di Tripoli. Il GAN è infatti impegnato in un conflitto con un governo rivale basato a Tobruch, le cui forze armate sono comandate dal Generale Khalifa Haftar. Pur essendo riconosciuto internazionalmente, il GAN non gode di effettivo supporto da tutti i Paesi. Haftar è notoriamente appoggiato dal vicino Egitto e da altri Paesi arabi, spinti anche dalla presenza dei Fratelli Musulmani e altri islamisti nella compagine di Tripoli; ma pure la Francia o la Russia, nel tentativo di avanzare i propri interessi nell’area, hanno garantito un sostegno a Tobruch.
L’Italia ha scelto, fin dal 2015, di appoggiare in maniera netta ed esclusiva il GAN. Renzi e Gentiloni presero questa scelta sia per accordarsi con gli organismi internazionali, sia perché gli interessi italiani (parliamo del gas Eni e del gasdotto Greenstream) in Libia sono localizzati principalmente in Tripolitania, la regione occidentale per l’appunto controllata da al-Serraj (Haftar possiede invece la Cirenaica, porzione orientale del Paese). In questi ultimi anni, infastiditi dalle ingerenze e violazioni dell’embargo sugli armamenti da parte di altre potenze, i governi italiani hanno più volte cercato un riconoscimento internazionale della propria leadership in merito al dossier libico. Questo sforzo ha condotto alla Conferenza di Palermo di un anno fa, ma malgrado i riconoscimenti incassati dagli USA e da altri Paesi, la diplomazia italiana non è stata in grado di incidere decisamente sulla situazione libica.
Il primo problema ha riguardato il basso profilo dei ministri degli Esteri succeduti a Gentiloni: Alfano e Moavero Milanesi non sono ricordati per il loro attivismo in tale veste. Oggi Di Maio è un ministro politicamente pesante, ma permangono molti dubbi sulle sue capacità. Quando a Roma ci si è accorti che non si riusciva a risolvere l’impasse a favore di al-Sarraj, sono cominciate aperture a Haftar troppo tardive per conquistare il Generale ma sufficienti a indispettire Tripoli. Il secondo, fondamentale fattore di debolezza italiana è il nostro spirito pervicacemente pacifista e antimilitarista, mantenuto in maniera ideologica anche quando si scontra con una realtà fatta di conflittualità, violenza e pragmatico scontro di interessi nazionali. Mentre a Tripoli si cercava un appoggio militare dell’Italia contro le offensive di Tobruch, l’allora ministra della Difesa Elisabetta Trenta offriva corsi sul gender agli ufficiali libici. Quando l’Italia del Conte Bis ha risposto picche all’ultima richiesta d’armi da parte di al-Serraj, quest’ultimo ha deciso di passare sotto la protezione turca. L’Italia ha rinunciato a difendere suoi interessi fondamentali, quali quelli legati all’approvvigionamento energetico, alla pesca nel Mediterraneo Centrale o all’ondata migratoria.
Quanto sta intanto avvenendo in Iraq dovrebbe suonare un altro campanello d’allarme per la nostra opinione pubblica, ridestandola dal pensiero magico per cui lo spesso citato art. 11 della Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra ecc.”) e i programmi di mezzi regolarmente dual use (trasformazione delle FF.AA. in una seconda Protezione Civile) ci salveranno da ogni male.
Sconfitto militarmente lo Stato Islamico in Siria e in Iraq, nella regione è ricominciata in grande stile la guerra fredda tra l’Iran da una parte (con tiepido appoggio russo) e gli USA, Israele e Paesi del Golfo dall’altra. Epicentro è l’Iraq dove convivono tre identità (sciiti, sunniti e curdi) e la presenza americana e iraniana. Quest’anno massicce manifestazioni popolari hanno costretto il Primo Ministro Adel Abdul Mahdi, filo-iraniano, a dimettersi – anche se continua a esercitare le sue funzioni in attesa di un sostituto. I partiti pro-iraniani cercano di avanzare un proprio candidato, osteggiati dagli altri ivi inclusi gli sciiti più nazionalisti (come l’Ayatollah Ali al-Sistani e soprattutto come Muqtada al-Sadr). Sullo sfondo ci sono le Forze di Mobilitazione Popolare, il vasto coagulo di milizie sciite unitesi per lottare contro ISIS, addestrate, armate ed eterodirette dall’Iran tramite la Forza Quds – potente unità speciale delle Guardie della Rivoluzione specializzata in azioni di intelligence estera.
Nel corso del 2019 alcune di queste milizie, oltre a impegnarsi nella repressione delle proteste anti-iraniane, hanno condotto attacchi con razzi contro basi militari americane nel Paese. Quando, a dicembre, un americano è rimasto ucciso, Washington ha reagito ordinando dei raid militari contro Kata’ib Hezbollah, una di queste milizie. Per tutta risposta, i miliziani – approfittando del fatto che il dimissionario premier Abdul Mahdi ha nominato responsabile della sicurezza nella Zona Verde delle rappresentanze diplomatiche un uomo a loro vicino – hanno attaccato l’Ambasciata americana.
A questo punto Washington ha deciso per una reazione particolarmente aggressiva: con un attacco mirato ha ucciso il Generale Qasim Soleimani, capo della Forza Quds, nonché vero patrono di Kata’ib Hezbollah. Si è trattato dell’eliminazione di un alto ufficiale iraniano, che per giunta nella nazione persiana era tra le figure più potenti e popolari (si vociferava di una sua possibile discesa in politica).
Il fatto che ora Twitter registri tra le sue tendenze “WWIII” è sintomo di esagerato allarmismo, ma sicuramente lo scontro tra Washington e Tehran ha raggiunto un apice che non si toccava da tempo. Ed è destinato a perdurare, a prescindere dagli strascichi di quanto accaduto in questi giorni.
Mentre la polveriera mediorientale si fa più esplosiva, a cosa s’affiderà l’Italia per tutelare sé stessa e i propri interessi?
Daniele Scalea è Presidente del Centro Studi Machiavelli.
Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.
Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).
Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.
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