Una delle penne storiche del giornalismo italiano, Giampaolo Pansa, ci ha lasciato a 84 anni. Classe ’35, esordì a 26 anni a “La Stampa”, iniziando una lunga carriera che lo vedrà passare da protagonista per i maggiori palcoscenici dell’editoria nazionale come il “Corriere della Sera”, “Repubblica”, “Panorama” e “L’Espresso”. Con uno stile inconfondibile, firmò celebri inchieste sulla corruzione e i limiti della classe politica italiana, diventando un maestro per molti giornalisti, coniando formule come «Balena bianca» per definire la Democrazia Cristiana.

Il suo nome rimarrà però eternamente legato all’opera di saggista controcorrente che intraprese dal 2003 intorno al periodo 1943-1945, in cui mise in luce i crimini e le atrocità partigiane nei confronti dei «vinti» della Repubblica Sociale. Pansa, da sempre di sinistra e già autore di libri sulla Resistenza, non immaginava che questo impegno gli avrebbe di lì a poco impedito di presentare pubblicamente i suoi libri. Larga parte dell’accademia e della cultura «ufficiale» si scagliò contro il suo atto di “lesa maestà” nei confronti della lotta partigiana, e molti suoi eventi vennero duramente contestati, dai centri sociali in particolare. I «padroni della memoria», come li definì Galli della Loggia, misero per l’ennesima volta in luce le loro contraddizioni: esaltare la democrazia e il dibattito solo fin quando ciò non tocca i privilegi acquisiti in decenni di «egemonia culturale».

Proprio per denunciare tutto questo, Pansa scrisse I Gendarmi della memoria (2007), dove molti suoi colleghi venivano messi sul banco degli imputati. Il cosiddetto “ciclo dei vinti” dell’autore si compose di importanti «romanzi storici» come Il Sangue dei vinti (2003), Sconosciuto 1945 (2005) e La Grande bugia (2006), che diedero un contributo decisivo a rendere “di massa” una valutazione critica della guerra partigiana. A dispetto delle censure, infatti, il successo di pubblico fu incredibile. Questo aspetto mise paradossalmente in luce un’altra contraddizione del nostro Paese. Come ha scritto ancora Della Loggia, «solo nel momento in cui personalità culturali di sinistra decidono che è giunto il momento di cambiare la versione fin lì consacrata dei fatti, è solo allora che il Paese si sente autorizzato a prendere ufficialmente conoscenza di parti di verità che fino ad allora, viceversa, si riteneva ideologicamente più opportuno far finta di ignorare». Giorgio Pisanò, reduce della Rsi, già negli anni ’60 infatti aveva scritto numerose opere sui lati oscuri della Resistenza (Sangue chiama sangue, Storia delle guerra civile in Italia, Gli ultimi in grigioverde) a cui Pansa si ispirò, ma che all’epoca non erano state minimamente prese in considerazione. La parola «guerra civile» fu accettata in ambito storico solo negli anni ’90, quando la utilizzò un nome di peso come Claudio Pavone.

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Ma nonostante l’opera coraggiosa di uomini come Pansa, la mentalità da «guerra civile» non sembra aver abbandonato gli ambienti progressisti della nazione, che preferiscono dare patenti di «legittimità democratica», agitare fantasmi e soffiare sul fuoco di vecchie divisioni per recuperare consensi perduti, piuttosto che promuovere il dibattito storiografico e guardare al futuro.


Francesco Carlesi, storico, è dottorando di ricerca in Studi Politici all’Università Sapienza.