Senza razzismo, il progressismo non sa di cosa parlare

Esiste, tra le tante, una curiosa contraddizione all’interno della narrativa progressista, che senza soluzione di continuità spazia dalla preoccupazione per l’insorgere di fenomeni razzisti all’attacco più zelante nei confronti della categoria dei bianchi. All’interno di tale tradizione, si colloca un articolo recentemente apparso sulla rivista Lancet, a firma Rhea W. Boyd.

La Boyd recensisce il libro Dying of Whitness dello psichiatra Jonathan Metzl, che descrive le conseguenze autodistruttive delle right-wing policies per la comunità bianca americana. Secondo Metzl i bianchi, nell’ottica di perpetuare il proprio ruolo egemone alla guida della “gerarchia razziale”, attuerebbero politiche che si rivelerebbero poi dannose per la sopravvivenza degli stessi, citando ad esempio le battaglie per la liberalizzazione delle armi. Tale comportamento autodistruttivo sarebbe frutto di una profonda crisi psicologica degli americani bianchi – crisi per cui Metzl introduce i termini di “ansia razziale” e “risentimento razziale” – derivata dalla presa di coscienza del cambiamento demografico che ne andrebbe a intaccare la posizione di primazia. L’autrice supera le stesse conclusioni del testo di Metzl, affermando che l’incremento della mortalità degli americani bianchi ha come unica spiegazione l’isteria della “difesa armata della razza bianca”.

Appare immediatamente chiaro come l’argomento sia analizzato da un punto di vista assolutamente tribalista, che non tiene conto di nessuna dinamica altra dalla dicotomia bianco-cattivo e nero-buono. Il movente della violenza armata viene completamente identificato con l’appartenenza ad un determinato gruppo etnico. Sia la Boyd sia Metzl sottolineano come questa visione di interesse esclusivo del gruppo etnico sia una prerogativa della whiteness, cui non c’è da contrapporre nessuna blackness, ad esempio, perché gli afroamericani sarebbero orientati al perseguimento di un interesse civico, di tutti, nonostante le continue persecuzioni che la nazione americana gli ha riservato nel corso dei decenni.

Le implicazioni schiettamente razziste di questa imposizione, che fanno del bianco un cattivo quasi per natura, non sembrano preoccupare più di tanto l’autrice, che nella chiosa del testo sentenzia che l’unica soluzione è “eliminare la whiteness, il sistema, la way of life, la filosofia, rea di produrre i delitti”. Ne consegue che l’aumento della mortalità nei maschi bianchi è da imputarsi alle suddette cause, quello nei neri ad un sistema sociale che li condanna all’emarginazione; un assunto deterministico che per la Boyd ha validità di legge storica.

Senza particolari giri di parole le politiche della whiteness sono collegate all’elezione di Donald Trump nel 2016 e l’articolo trova nella delegittimazione di quest’ultimo e del suo elettorato – almeno quello ideale – la sua ragione d’essere. In maniera simile a quanto accade nei paesi occidentali si compie una complessa opera di narrazione per cui l’elettorato percepisca la “colpa” di appoggiare una forza diversa dal mainstream; in secondo luogo questo tipo di voto viene collegato ad un preciso sistema di valori, creato e demonizzato ad arte, per cui l’elettore debba sentirsi, nell’esprime la propria preferenza, perennemente dalla “parte sbagliata” della bagarre politica.

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L’utilizzo del feticcio morale per condannare l’avversario si deve però fondare su presupposti presuntamente logici che, qualora non esistano, necessitano di essere creati ex novo. Nell’articolo della Boyd, il dato citato – senza alcuna fonte sia chiaro – riguarda l’aumento della mortalità degli americani bianchi, assunto su cui viene costruita l’intera narrazione. Eppure l’attenzione assolutamente parziale con cui viene sottolineata questa variabile è un qualcosa di fallace in sé, non essendo inserito all’interno di un’analisi socio-economica dello scenario globale e, soprattutto, riducendo l’analisi al trend di mortalità dei soli bianchi. Dalla stessa prospettiva, sarebbe possibile riscrivere l’intero testo, sostituendo un qualsiasi gruppo etnico ai bianchi, qualora, proprio come la Boyd e Metzl, ci riservassimo di superare alcune contraddizioni affermando le proprie convinzioni come se fossero verità assolute. Tale operazione viene più volte ripetuta all’interno del testo: “i bianchi sono egoisti, i neri altruisti”, “i bianchi agiscono spaventati dal terrore per l’annientamento razziale”, “i bianchi sono predisposti al fanatismo per le armi”, “i bianchi muoiono per le loro politiche suicide, i neri a causa della condizione socio-economica” e così via.

Se le contraddizioni delle tesi espresse sono immediatamente intellegibili, non è da sottovalutare la loro pericolosità sociale. La narrativa progressista, specie oltreoceano, può ancora vantare il totale controllo della macchina mediatica. La creazione di falsi miti, come quello della “white guilt” – la colpa bianca – , è in grado di modificare la coscienza del paese, andando a creare un immaginario profondo capace di superare e sovrapporsi alla realtà delle cose. Colpevolizzazione e delegittimazione zelota del “bianco” hanno come primo risultato la polarizzazione del contrasto politico, che realmente si sposta dal piano civico a quello etnico; allo stesso modo la creazione della narrativa di una whiteness schizofrenica e pericolosa, è in grado di influenzare il comportamento di individui deboli ed emarginati, che andrebbero conformandosi a questo tipo di vulgata. L’unico risultato è che l’insistenza isterica sul tema non ha il senso di una sensibilizzazione intorno a un problema, ma quello di andare a creare un mito che facendosi realtà possa essere sfruttato a fini politici dalle forze progressiste in affanno.

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Studia la comunicazione politica, la narrazione, la capacità di creare miti e simboli per comprendere fino a che punto questo velo sia in grado di mascherare la realtà dei fatti. Proviene dal mondo del giornalismo, incubatore assieme all'università dei grandi miti post-moderni.