Da circa nove anni sulla Libia spirano venti di guerra. Da circa otto, l’Italia, separata da quella che fu la quarta sponda da appena un braccio di mare, assiste mentre i suoi interessi d’oltremare vengono gravemente compromessi. La situazione del paese africano, al di là del suo interesse contestuale, illumina su un problema ormai divenuto endemico nel Bel Paese, vale a dire la totale incapacità di perseguire l’interesse nazionale.

Sembrano ormai un miraggio i giochi di sponda della Prima Repubblica, che vide l’Italia, unicum in Europa, allungare timidamente le mani oltre la sicurezza dell’ombrello americano. Ultimo guizzo di lungimiranza nel panorama internazionale, persino la “politica dell’amicizia” di berlusconiana memoria appare oggi come un risultato ben lontano dal poter essere raggiunto. Il susseguirsi di governi di mentalità economicista e antistrategica ha confinato l’Italia ad una condizione di “navigazione a vista” in campo internazionale, che nessuna nazione è in grado di permettersi in un mondo che si fa sempre più veloce ed aggressivo, con sempre nuovi attori pronte ad affacciarsi sulla scena. Comprendere le cause di questo approccio antinazionale e riflettere sui mezzi a disposizione per risalire la china è un compito di importanza esistenziale, che riguarda la sopravvivenza stessa della compagine nazionale e che dovrebbe precedere per importanza ogni altro tipo di questione.

Premessa necessaria allo sviluppo di una politica dell’interesse nazionale è l’adozione di una logica realista, che non lasci spazio a suggestioni ideologiche. Pensare in termini ideologici è un lusso che una piccola nazione occidentale non può più permettersi nel mondo dei terrores multi. Persino il gigante americano si trova oggi a dover ridimensionare il sogno di promotore globale della pace democratica, costretto a dare spazio alla più realistica politica dei rapporti di forza, come insegna la crisi iraniana dello scorso mese. All’interno di questo panorama travagliato, un paese come l’Italia non può permettersi di affidarsi a teorie di impostazione messianica, tanto quelle di ispirazione universalista liberale quanto quelle di marca anti-occidentale e socialisteggiante.

Necessità altrettanto stringente è quella di fare i conti con i limiti intrinseci del sistema politico-amministrativo. L’instabilità politica cronica del Bel Paese lascia poco spazio alla creazione di una classe dirigente formata in grado di portare avanti le istanze nazionali, che necessitano di pianificazione strategica e lungimiranza decennale. All’interno del panorama politico italiano l’unico interesse perseguibile rimane quello del partito, che spesso e volentieri diverge da quello nazionale. L’orizzonte dell’interesse lobbistico risulta infatti terreno fertile per le ingerenze esterne, che spesso possono arrivare a contare su vere e proprie quinte colonne sul suolo nazionale; un caso su tutti, si pensi all’influenza dell’establishment UE sui partiti di centro e centro-sinistra attualmente al governo o ai rapporti, quantomeno sospetti, di alcune frange M5S con la Repubblica Popolare Cinese.

Come in ogni crisi endemica, tuttavia, esiste anche un importante aspetto antropologico da sottolineare. La politica estera dipende, insieme a molti altri fattori sia chiaro, anche dalla concezione che un popolo ha di sé nel mondo. I paesi che più di tutti si sforzano di influenzare a proprio vantaggio l’equilibrio di potenza sono quelli che hanno una forte motivazione culturale, che hanno trovato un “mito” che sia stato in grado di mobilitare la volontà popolare. Le aspirazioni gaulliste della Francia, il neo-confucianesimo cinese, la responsabilità morale atlantica e il neo-ottomanesimo della Turchia di Erdogan sono solo alcuni esempi di quanto possa essere importante per una nazione avere chiaro il proprio posto nel mondo. Ed è proprio questo mito, declinato e messo in atto secondo un’ottica realista dei rapporti di forza, a portare una nazione al centro del panorama internazionale.

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È, insomma, la concezione schmittiana di trovarsi come entità politica al centro di un mondo di “nemici” a far sì che un popolo sia disposto a spendere le proprie forze per tutelare l’interesse nazionale, interesse che spesso richiede un tributo che non è possibile pagare se non con le vite dei soldati. Al contrario, nazioni dalle possibilità tutto sommato alte, ma che non dispongano di tale concezione, si troveranno sempre in una condizione di disorientata navigazione a vista. Si prenda l’esempio di una nazione come l’Arabia Saudita, che nonostante le elevate possibilità economiche e una spesa spaventosa nel settore difesa, non può prescindere dalla protezione americana e vede la propria influenza ridotta alla sola sfera economica, a differenza di una nazione certamente più povera, quale l’Iran, che tuttavia ha forti motivazioni culturali per perseguire il proprio interesse.

È nella sintesi di volontà nazionale e cinico realismo che le nazioni si ritagliano un posto nel sistema internazionale. Sintesi che in Italia non ha né una tesi né un’antitesi su cui poggiare. Stabilire un nuovo corso dell’Italia in politica estera vuol dire muoversi su due direttrici parallele. La prima resta lo sviluppo di una narrativa che ricostruisca la fiducia di un popolo ormai disincantato da decenni di mala politica; la seconda, sempre imprescindibile, è quella di formare una classe di decisori realisti e consapevoli che l’interesse nazionale debba precedere ogni altro tipo di istanza personalistica. Solo così sarà possibile sfruttare la congiuntura storica tutto sommato favorevole del parziale ripiego americano e del nuovo spazio all’interno delle istituzioni UE dettato dalla Brexit. Al contempo, sarà possibile riscoprire quelle possibilità che il Bel Paese ha saputo sfruttare nei suoi momenti di “lucidità”, come la favorevole proiezione geografia mediterranea, una rete di industrie partecipate di eccellenza e i suoi rapporti tradizionalmente meno freddi rispetto alle altre potenze europee con alcuni Stati non occidentali (Russia e Africa orientale in primis).

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Studia la comunicazione politica, la narrazione, la capacità di creare miti e simboli per comprendere fino a che punto questo velo sia in grado di mascherare la realtà dei fatti. Proviene dal mondo del giornalismo, incubatore assieme all'università dei grandi miti post-moderni.