Hanno suscitato ampia discussione le ultime apparizioni Facebook del premier Conte (16 e 21 marzo), nelle quali annunciava l’imminente adozione di provvedimenti per fronteggiare la crisi generata dall’epidemia da Covid-19.

Molteplici sono le ragioni di critica. Innanzitutto, la scelta di prendere parola quando i provvedimenti erano ancora in itinere (e neanche del tutto dipanati nella mente della compagine governativa), lasciando nella vaghezza misure direttamente incidenti sulle libertà dei cittadini, sa molto di propaganda e ben poco di comunicazione istituzionale. Peraltro, ciò stride con la figura sobria e severa del premier di qualche mese fa, quando rimproverava all’allora Ministro Salvini l’eccessiva esposizione social e la sua “confusione” tra il ruolo istituzionale e quello di capo politico.

Si tratta di un tentativo di dare l’impressione che sia tutto sotto controllo, quando invece la realtà mostra un esecutivo che rincorre una situazione sottovalutata e gestita caoticamente sin da principio. Qui si introduce la seconda critica sollevata: la scelta di Facebook per evitare l’usuale confronto con i giornalisti delle rituali conferenze stampa, che avrebbe evidenziato le falle del modus operandi, dando ampio spazio ai fattori emotività e auto-promozione.

In questa sede, però, si vuole riflettere soprattutto sul fatto che Conte ha inaugurato, almeno nel nostro sistemo politico, l’era di Facebook quale mass media per comunicazioni istituzionali. Come la carta stampata si trovò costretta, a un certo punto, a rincorrere la radio (prima) e la televisione (poi), ora tutti si trovano costretti a sincronizzarsi con le “dirette”.

L’occasione può segnare la “riconciliazione” nell’ambito del mainstream di strumenti prima spesso confliggenti, come emerse clamorosamente in occasione delle elezioni di Trump nel 2016: bistrattato dai principali media, guidò la riscossa e la cavalcata verso la Casa Bianca mediante i social network (Twitter e Facebook), dove, senza ostruzionismi e interferenze, poteva liberamente ritagliarsi spazi di propaganda. Non solo: attraverso i social (in particolare Facebook) fu possibile raccogliere milioni di dati personali, che tornarono utili per “targetizzaree quindi rendere più efficaci i messaggi di campagna elettorale (scandalo Cambridge Analytica).

Dopo il tempo in cui i social (non ancora maturi) erano una valida alternativa per aggirare gli ostacoli frapposti dalle fazioni avversarie annidiate nelle redazioni, ora le corporations che li gestiscono, da un lato, si stanno dotando di un corpus normativo proprio politically correct (gli unilaterali, generici finanche arbitrari “standard della community”, davanti ai quali le legislazioni nazionali si trovano impreparate, forse anche “superate” secondo una certa visione no-borders) e, dall’altro lato, si stanno proponendo sempre più come canali preferenziali di comunicazione per attori istituzionali (non solo più per istanze di privati-candidati), riassumendo la ex carta stampata e la videodiffusione nell’assoluta elasticità di formalità e di tempi. Mezzi sempre più efficaci nel tenere incollate allo schermo non per costrizione, ma per forza d’abitudine, miliardi di persone, più o meno (in)consapevoli di cosa sono partecipi.

LEGGI ANCHE
L'emergenza sanitaria mostra le lacune della nostra Costituzione | BECCARDI

Per avviare questo esperimento, quale miglior interprete di un soggetto – dapprima semisconosciuto, ben presto introdotto nell’establishment – lanciato nell’agone politico da un movimento il cui fondatore-ispiratore preconizzava un futuro in cui un social network avrebbe retto l’organizzazione mondiale (Gaia). Ma cosa potrebbe accadere, un giorno, se le comunicazioni istituzionali non dovessero essere conformi agli “standard della community”? Si preannunciano affari di Stato sempre più assorbiti nelle logiche social, non tanto quelle degli utenti, quanto piuttosto quelle degli stakeholders.

Ecco, vorremmo che restasse solo una distopia e preferiremmo continuare a svagarci, tenerci in contatto, anche informare, con i social network, senza mai essere governati dal “regno della quantità” dei likes e delle visualizzazioni che muove profitto e annulla ogni genuina passione che dopotutto, benché tragica, ci rende ancora umani. Perché nulla possa “spegnerci” con un semplice click.


Stefano Beccardi, avvocato, ha un Master in Consulenza politica e marketing elettorale (Eidos).

+ post

Avvocato, ha un Master in Consulenza politica e marketing elettorale (Eidos).