Bernie Sanders è in difficoltà. Nelle attuali primarie del Partito Democratico americano, il senatore del Vermont arranca sempre di più e – ormai – la distanza da Joe Biden in termini di delegati si è fatta assai difficilmente colmabile. È pur vero che il candidato socialista non possa dirsi ancora matematicamente fuori gioco. Ma è altrettanto indubbio che, per rientrare in partita, dovrebbe inanellare una serie di decise vittorie in molti degli Stati che devono ancora tenere le proprie primarie. Uno scenario abbastanza improbabile, visto che molti di questi Stati (si pensi, per esempio, a Louisiana e Georgia) è quasi impossibile votino per lui.
Eppure il senatore del Vermont era partito in modo abbastanza grintoso. Nel corso degli appuntamenti elettorali in Iowa, New Hampshire e Nevada era infatti riuscito a conquistare ripetutamente la maggioranza nel voto popolare. Tra l’altro, quest’anno si era anche rivelato in grado di sfondare nel sostegno degli ispanici, conquistandosi così ampi strati di una quota elettorale che sta diventando sempre più decisiva negli Stati Uniti. Ciononostante, a partire dalle primarie del South Carolina lo scorso 29 febbraio, qualcosa si è inceppato. E, nonostante l’importante vittoria in California al Super Martedì del 3 marzo, ha progressivamente perso terreno. Perché? Le ragioni di questa situazione sono molteplici.
In primo luogo, troviamo una ragione, per così dire, storica. Esattamente come nel 2016, anche stavolta Sanders non è riuscito ad attrarre le simpatie degli elettori afroamericani: elettori che gli hanno preferito una figura più moderata e rassicurante, come quella di Joe Biden. È del resto questo che spiega i pessimi risultati rimediati dal senatore negli Stati meridionali.
In secondo luogo, Sanders ha riscontrato pesanti defezioni da parte di una sua storica quota elettorale: quei blue collars bianchi impoveriti che gli hanno voltato le spalle nel Nord, in aree come il Michigan e il Minnesota. Questo fattore si è rivelato particolarmente problematico per Sanders, visto che – soprattutto nel settentrione – non ha potuto “sostituire” i bianchi in uscita con gli ispanici in entrata: i latinos sono infatti soprattutto presenti nel Sud e nell’Ovest, mentre in aree come il Nordest rivestono un peso relativamente minore. Due sono forse le principali ragioni che possono aver spinto i colletti blu al “tradimento”. Innanzitutto è possibile che alcuni elettori che votarono Sanders alle primarie di quattro anni fa siano trasmigrati nelle file di Donald Trump: non è un mistero che il presidente americano abbia sempre puntato sul voto operaio e – in questo senso – non certo da oggi sta blandendo gli elettori del senatore socialista. In secondo luogo, è plausibile ritenere che i colletti blu non abbiano digerito alcune battaglie liberal-progressiste del senatore: a partire da quel Green New Deal che risulta notoriamente inviso a molte quote elettorali, legate all’industria tradizionale (si pensi soltanto al comparto carbonifero).
Un ulteriore problema per Sanders risiede nell’affluenza dei giovani. Per quanto il senatore risulti ancora leader indiscusso nel voto dei Millennials, è altrettanto indubbio – come lui stesso ha riconosciuto – che non si siano mobilitati ulteriori soggetti rispetto a quelli già coinvolti nel processo politico. Inoltre, Sanders è rimasto azzoppato anche a causa di alcune posizioni un po’ velleitarie e ambigue, in riferimento a Cuba e Venezuela: un fattore, questo, che gli ha irrimediabilmente alienato le simpatie degli ispanici della Florida.
Infine, non va comunque dimenticata la mobilitazione massiccia dell’establishment del Partito Democratico che – nell’ultimo mese – ha fatto quadrato intorno a Biden, attuando una dura campagna di discredito verso Sanders. La maggior parte degli ex candidati alla nomination si è tra l’altro schierata a favore dell’ex vicepresidente (non si sa a ben vedere con quanta sincerità): anche figure come la senatrice californiana, Kamala Harris, e la deputata delle Hawaii, Tulsi Gabbard. La prima (che è afroamericana) aveva addirittura accusato Biden in estate di collusione col segregazionismo razziale. La seconda ha invece sempre tacciato l’establishment, che l’ex vicepresidente oggi rappresenta, di essere inaccettabilmente guerrafondaio. Tutto questo, mentre una (teorica) rappresentante della sinistra come Elizabeth Warren si è invece rifiutata in toto di dare il proprio endorsement: come se ci fosse un effettivo dubbio su chi – tra Sanders e Biden – rappresenti realmente le istanze degli operai impoveriti.
Il senatore socialista comunque, almeno per il momento, sembra intenzionato a restare in corsa. E questo non tanto perché spera realmente di conquistare la nomination. È invece probabile che voglia approfittarne per logorare Biden. Non trascuriamo infatti che – nonostante il vantaggio nella conta dei delegati – l’ex vicepresidente non abbia ancora blindato la nomination e che – a causa del coronavirus – molti Stati abbiano rimandato le proprie primarie a giugno. La strada per Biden è quindi ancora lunga. E Sanders potrebbe abilmente usare questo periodo per mettergli sempre più i bastoni tra le ruote. Anche perché quello che per molti è il candidato inevitabile potrebbe vedersi spuntare tra non molto un nuovo (inatteso) rivale: il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo.
Stefano Graziosi è Ricercatore del Centro Studi Machiavelli.
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