Un genocidio. Non esiste definizione più appropriata per descrivere oggettivamente ciò che sta accadendo in Lombardia e precisamente tra Cremona, Bergamo e Brescia. Ci sarà tempo per individuare colpe, negligenze, omissioni, complicità di chi doveva fare e non ha fatto. C’è tuttavia un aspetto di questa tragedia che sta gradualmente emergendo: l’errore fatale di non aver istituito una zona rossa nelle terre più colpite dalla pandemia, che purtroppo erano anche quelle più produttive d’Italia. Ed è questo il punto. Il fattore culturale (operosità innata di quelle popolazioni, il lavoro come religione civile, il dinamismo imprenditoriale spinto fino all’estremo) ha giocato un ruolo fondamentale, unito alla pervicace avidità con la quale il complesso industriale ha ritenuto e voluto lavorare fino all’ultimo, fino allo stremo, fino a quando le cifre dei morti e le cataste dei cadaveri stavano diventando troppi.
Lavorare fino alla morte, senza pietà, senza rispetto per gli anziani, senza rispetto per la vita umana (“tanto muoiono solo i vecchi o i malati”, si ripeteva a mezza voce), in nome del fatturato, dell’accumulo, del fare senza sosta, ciecamente, come robot, come macchine spietate. A che pro? Per chi? Lavorare e morire in nome del “lavoro prima di tutto”, lavorare e morire per dare al fisco più della metà dei propri guadagni, lavorare e morire per ricevere una pensione indegna, lavorare e morire per ricevere dallo Stato un calcio nel sedere quando ci si ammala, lavorare e morire per pagare pensioni di invalidità a chi non ne ha diritto, lavorare e morire per foraggiare redditi di cittadinanza fasulli, lavorare e morire per poi essere sostituiti da manovalanza a basso costo, importata, dall’interno o dall’esterno.
Si è detto che questa pandemia cambierà radicalmente il modo di vedere la vita. Ne dubitiamo. Se fosse così, una volta rientrata l’emergenza sanitaria, i cittadini di Bergamo e Brescia dovrebbero abbandonare le loro amate terre e migrare in massa, come i loro antenati un tempo, alla volta dell’Austria o della Svizzera, dove i loro successi lavorativi verrebbero apprezzati e non usati per spolparli, e dove sicuramente non troverebbero un Borrelli di turno nel momento estremo del bisogno.
Purtroppo non accadrà: i sopravvissuti continueranno a lavorare, magari il doppio di prima, per recupere il PIL, per pagare i debiti, per continuare a ingrassare l’assistenzialismo di una parte del Paese. E tanti industriali li convinceranno a rimettersi in moto, perché “è il libero mercato, bellezza”, cioè il loro libero mercato, quello dove i guadagni sono privatizzati e le perdite statalizzate (cassa integrazione pagata dallo Stato, finanziamenti a pioggia ai soliti nomi eccellenti dell’imprenditoria politica ecc.). D’altro canto è questa l’essenza ipocrita del liberismo: la libera concorrenza finisce dove iniziano le perdite, per tamponare le quali o si drenano risorse pubbliche oppure si abbatte il costo del lavoro, cinesizzandolo.
Il libero mercato senza regole esige sacrifici umani. Lo vediamo in questi giorni: “Occorre ripartire, riaprire”, con il sottinteso che i componenti mancanti (le persone uccise dalla pandemia) saranno presto sostituiti da altri componenti, più giovani, più sani, e così all’infinito.
Due sono i dogmi di questa ideologia genocida: il PIL e il debito pubblico, che deve essere sostenibile, e in nome del quale si tagliano posti letto ospedalieri, terapie intensive, piani di prevenzione sanitaria. Vi è tutta una “letteratura” economica dietro: non solo il mercatismo dei vari Monti, la cinesizzazione del mercato del lavoro dei vari Prodi, i tagli alla spesa sociale delle varie Fornero. Vi sono soprattutto i grandi gruppi mediatici, i think tank globalisti più o meno radicali (non solo l’Open Society di Soros) ma anche “pensatoi” nostrani, che ancora in questi giorni non smette di calcolare preoccupato l’ammontare del debito pubblico italiano, mentre migliaia di cadaveri vengono bruciati nei crematori di tutta Italia.
Sapremo trarre una lezione da questa catastrofe? Si dice che la globalizzazione sia finita, conclusa. È troppo presto per affermarlo: per non ricadere negli stessi errori occorrerebbe un serio esame di coscienza, qualcosa che sia i laici sia i credenti a questo punto dovrebbero ritrovare.
Abyssus (pseudonimo) è un professionista che opera nel settore culturale italiano
Questa crisi (o guerra come qualcuno la chiama) mette un evidenza due grandi carenze: la mancanza di un sistema operativo efficace di allarme, pianificazione preventiva e gestione delle crisi e la mancanza di una visione d’insieme dell’economia (nel suo senso più ampio).
Non posso entrare nei dettagli tecnici della salute pubblica perché non medico né esperto del settore, ma posso fare un parallelo con le emergenze di sicurezza-difesa collettive. Le emergenze si prevengono, lo dicono gli esperti di tutto il mondo. Non si possono ovviamente fare previsioni, ma si possono delineare scenari possibili e individuare le risposte in anticipo, per consentire la predisposizione degli strumenti necessari. Questo ha un costo, che però è sempre largamente inferiore ai costi da sostenere per condurre una guerra aperta. Solo che bisogna fidarsi degli esperti (da scegliere senza guardare le tessere di partito…) e soprattutto non alterare i termini del problema per finalità ideologiche. Non chiudere la questione con espressioni del tipo “tanto chissà quando succederà” o “stiamo nel presente, il futuro si vedrà”.
Quanto all’economia, vale un ragionamento analogo. Prima di entrare nei meccanismi di ordine tecnico-tattico, bisogna definire le grandi linee strategiche. Il sistema è complesso, multidimensionale, in cui non pesano solo la mera contabilità finanziaria, né le complicate dinamiche di acquisizione, vendita, ecc. delle numerosissime società e imprese grandi, medie e piccole. Bisogna conoscere tutti gli attori in.titte le loro caratteristiche, limiti e punti di forza. Bisogna anche qui delineare scenari, studiare strategie di sistema, fidarsi degli esperti che vanno scelti con obiettività… Bisogna soprattutto non ignorare fattori immateriali come motivazione, spirito collettivo/nazionale, etica e coraggio morale. Le grandi civiltà non sono nate solo con le finanze, ma anche e soprattutto intorno a grandi ideali e valori condivisi.