Estratto dal libro “Coronavirus: fine della globalizzazione” di Marco Gervasoni e Corrado Ocone.


Il Covid19 sta facendo a brandelli l’ideologia globalista nelle sue fondamenta. Essa è (era?) fondata su alcuni principi molto di base come tutte le ideologie derivanti da religioni secolarizzate.

Il primo pilastro della ideologia globalista è che le frontiere sono ormai obsolete, per cui chi si intestardisce a difenderle è solo un nostalgico destinato ad essere spazzato via dal progresso. Ancora in questi ore i Don Ferrante contemporanei ripetono come un mantra che «i virus non rispettano le frontiere». Ora, i virus si nascondono negli uomini e questi dalle frontiere possono essere controllati, come si vede da molti nostri connazionali bloccati all’estero o a cui è impedito di entrare in altri. Ma se anche fosse vero quel ragionamento, sarebbe come dire che, poiché la polizia non riesce a reprimere tutti i crimini, tanto varrebbe eliminarla. Il Covid19 si è potuto espandere proprio perché alcuni paesi, quelli europei in particolare, hanno lasciato frontiere troppo aperte e porose. Se lo fossero state ancora più, come rivendicano i Don Ferrante globalisti, chissà cosa sarebbe accaduto.

Il secondo fondamento dell’ideologia globalista sta nel free trade, il libero commercio, per sua definizione considerato sano, contro il «protezionismo» cattivo, perché, lasciando ai mercati internazionali, cioè ai consumatori, decidere, porterebbe a un equilibrio perfetto. A parte che questo mercato internazionale vedeva, prima di Trump, alcuni attori, la Cina, privilegiati rispetto ad altri, i liberoscambisti hanno dimenticato che, oltre allo scambio di merci, si scambiano pure malattie ed epidemie.

Il terzo fondamento dell’ideologia globalista riguarda la libertà di movimento, un dogma assoluto, quasi inciso nelle tavole delle legge come uno dei diritti fondamentali – da qui l’assurda evocazione di un diritto di emigrare e di un diritto ad accogliere chi emigra. In realtà i diritti fondamentali sono «solo» quelli di parola, di credo religioso, di espressione e di tutela dell’habeas corpus. Tutti gli altri non lo sono, a cominciare da quello di movimento, che può e deve essere regolato dalla comunità politica.

I globalisti immagina(va)no un mondo in cui ci si possa recare senza documenti non solo a Berlino o a Parigi ma anche a Washington, a Pechino, e reciprocamente. Questo sogno di una Repubblica mondiale, calco delle utopie cristiane, che fin dal Medioevo predicavano un mondo unico, una comunità di fedeli unita, come tutte le utopie non poteva che infrangersi contro il muro della realtà. Che ora ha la forma di una corona, e uccide. Il risultato è che migliaia di italiani ora non possono uscire di casa, i quarantenati, e milioni non possono lasciare le loro città, trasformate in zone chiuse, se non con un lasciapassare.

L’ultimo pilastro della ideologia globalista, almeno per chi vive nel Vecchio Continente, è l’europeismo. L’idea che, in attesa della Repubblica mondiale, si possa anzi si debba creare una Repubblica europea, gli Stati Uniti d’Europa, in cui siano totali la libertà di scambio, commercio, di movimento e le cui cosiddette «frontiere esterne» siano a loro volta le più aperte possibili. Ed è ancora una volta ironia della storia (o forse di Erdogan) che, proprio mentre l’Europa è investita dal Covid19, alla frontiera greca premano migliaia di migranti: i due volti del fallimento della Ue.

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Ancora in questi giorni i Don Ferrante europeisti ripetono che ci vuole «più Europa» e quasi incolpano i cosiddetti sovranisti di aver frenato questo processo: se ci fossero gli Stati Uniti d’Europa il Covid19 non sarebbe arrivato? Un po’ ardito da sostenere. In ogni caso, nonostante i proclami della commissaria Ursula von der Leyen (sulla «Stampa» del 7 marzo scrive che «l’epidemia non fermerà l’Europa») la Ue non sembra in grado, né interessata, ad affrontare questa crisi, lasciata ai singoli Stati nazionali, non poi così solidali tra loro. […] Più che essere la sconfitta del «nazionalismo», come scrive Bret Stephans sul “Financial Times” (5 marzo) il Covid19 ci appare la debacle del globalismo.

L’inadeguatezza, se non la pericolosità, della ideologia globalista investe però anche una filosofia, o un insieme di teorie filosofiche, di ben altra nobiltà e levatura, che tuttavia le hanno svolto da supporto. Stiamo parlando del liberalismo, o perlomeno di quello che si è affermato dopo gli anni Sessanta, e che Raymond Aron preferiva chiamare «libertarismo». Un liberalismo che teorizza l’individualismo narcisista e desiderante, i diritti a discapito dei doveri, che non riconosce la comunità e che ha contributo a forgiare una società frammentata e debole, liberal-libertaria, una società «progressista»: nel senso che crede, alla stregua dello psicologo americano Steven Pinker, tutto andrà per il meglio e che il progresso, vecchio concetto ottocentesco disintegrato dalla filosofia del Novecento, porterà ognuno ad essere più ricco, più realizzato, più felice. E si badi bene, Pinker e i vari suoi emuli nel mondo, scrivevano dopo l’11 settembre, dopo il Bataclan, dopo il 2008: siamo sicuri che, moderni Don Ferrante, continueranno anche dopo Covid19 a scrivere le stesse tesi.

Tanti auguri, ma a noi sembra che la crisi Covid19 rappresenti proprio quel «fallimento del liberalismo» teorizzato da un importante libro del politologo americano Patrick J. Deneen. Un liberalismo che ci ha distolto «dalle relazioni sociali e comunitarie e che, avendo con successo sradicato le persone dalle relazioni, che in passato informavano la loro concezione del mondo, il senso di essere cittadini coinvolti da un comune destino, ha lasciato individui esposti agli strumenti della libertà – ha lasciato le persone in uno stato debole nel quale gli ambiti di vita, che avrebbero dovuto liberarle, sono completamente al di fuori del loro controllo».

Le zone rosse, le palestre e i cinema chiusi, i posti di blocco, le quarantene, introdotte spesso da governi che condividono il racconto liberal-progressista, sono il ciclico, regolare monito alla hubris, alla tracotanza umana, e in particolare a quella del liberalismo, che si illudeva di sostituire l’uomo a Dio o, in ogni caso, credeva nella sua onnipotenza. Icaro non poteva non bucarsi le ali e cadere.


Marco Gervasoni, professore ordinario di Storia contemporanea, è Consigliere Scientifico del Centro Studi Machiavelli.