di Daniele Scalea

 

Chi preme per la riapertura del Paese dopo due mesi di lockdown è paragonabile a un assassino, come alludono certi partigiani della chiusura a oltranza che infuriano nei social? No, come spiegato anche nell’ultimo report sulla crisi sanitaria ed economica. In queste righe non si vogliono però discutere meriti e demeriti del lockdown e delle possibili alternative, bensì rispondere a una domanda: perché se si desidera contemperare esigenze sanitarie ed economiche si incontrano reazioni di indignata condanna morale? Per spiegarlo, si illustreranno alcuni dei caratteri della psicologia collettiva contemporanea.

La non accettazione della morte

La morte è, di tutti gli aspetti della nostra esistenza, quello a cui da sempre l’uomo guarda con più orrore o angoscia. La fine della vita, l’abbandono del corpo esanime, l’incognita del dopo, il dolore di chi rimane, giustificano questo atteggiamento e il desiderio di limitare le morti. Salvare vite è tra i gesti più nobili che si possano compiere e la prosecuzione della vita (anche indirettamente, tramite la progenie) è il principale scopo biologico di ciascuno di noi; ciò non toglie che la morte faccia purtroppo parte ineluttabile dell’esistenza. Tuttavia, la nostra epoca è caratterizzata da un crescente orrore della morte, probabilmente perché con la secolarizzazione se ne sta andando la fede nella sopravvivenza dell’anima, unico modo che ha l’uomo per rendersela accettabile. Si sono ripudiati gli antichi concetti di sacrificio ed eroismo nella morte; si cerca di esorcizzarla con un giovanilismo protratto all’estremo (si è “ragazzi” ancora a trent’anni e “vecchio” è divenuto un’offesa); non si accetta più l’idea di fatalità ma per ogni morte si cerca un colpevole. Il ripudio della morte, non solo umana, ha spinto milioni di persone ad abbracciare il vegetarianesimo e il veganesimo. La morte è un tabù e, come tale, dev’essere esclusa a priori: qualsiasi discorso ne contempli il rischio, è necessariamente esecrabile: che si tratti di rispondere con la forza a un attacco o di trovare alternative più sostenibili al lockdown, chi paventa ciò è automaticamente equiparabile a un assassino.

Il moralismo

La nostra epoca è tra le più moraliste della storia. Non facciamoci ingannare da tutta l’iconoclastia “antimorale” che troviamo in tv o nell’arte: essa ha come bersaglio i vecchi idoli, dalla religione trascendente alla famiglia. La nuova religione laica, quella del politicamente corretto, ha invece imposto una sua propria intransigente morale e rigida etichetta. Dire la parola sbagliata nel posto sbagliato può costare la morte civile, come in un villaggio puritano d’altri tempi. Uno dei titoli più abusati dai giornali è: “La vicenda X che indigna il web”. L’indignazione è il sentimento caratteristico della nostra epoca, nemmeno fossimo un salotto di dame vittoriane. Ogni questione è elevata a “valore morale”, resa indiscutibile in un confronto tra “buoni” e “malvagi”. Succede sull’immigrazione, sull’Europa, sulla pace, sul cambiamento climatico, ed ora il copione si ripete per il lockdown. Se non sei disponibile a stare chiuso in casa (magari senza reddito) a oltranza, sei immorale e ti sarà risposto con la virtuosa indignazione dei “giusti”.

L’ipersemplificazione del dibattito

Sempre più il discorso pubblico ruota attorno a slogan, frasi ad effetto o, come dicono gli americani, soundbites. L’avvento dei social ha esacerbato una tendenza già in atto, che deriva dalle pratiche pubblicitarie radiotelevisive ma deve molto anche allo scadimento del sistema educativo, con sempre più persone diplomate e laureate ma sempre meno dotate di senso critico e capacità di confronto argomentato. Lo slogan non contiene il contesto e le interminabili ore di chiacchiericcio nei talk show non mirano quasi mai a fornirlo, preferendo invece suscitare emotività e magari rabbia contro l’untore di turno. Il dibattito ruota attorno a formule preconfezionate, emotive e prive di profondità, che vanno da “modello Italia” a “guerra contro il virus”. “Il lockdown salva molte vite” non dovrebbe essere la chiusa di un discorso, bensì il suo inizio: restano da valutare sostenibilità, alternative, costi-benefici. I “costi” non sono meramente quelli economici, di fronte ai quali rispondere che il valore d’una vita non è quantificabile in danaro; e non sono nemmeno gli immani sacrifici in termini di qualità della vita, rispetto ai quali si può obiettare che è meglio perdere tutti in qualità che tanti perdere la vita. Il problema è che l’elevata speranza di vita, la ridotta mortalità infantile, la possibilità di curare molte malattie, l’adeguata nutrizione – tutto ciò che costituisce la nostra salute fisica – non sono  un dono dal cielo bensì il frutto del lavoro quotidiano che si somma a quello delle generazioni precedenti. Se crolla il tuo reddito nazionale come mantieni un sistema sanitario efficiente? Ricchezza e povertà sono le principali determinanti della salute pubblica e individuale; il calo di PIL si traduce in aumento della mortalità (per questo rimando nuovamente all’approfondimento dell’ultimo report). Del resto, anche i virtuosi moralizzatori del lockdown compiono, quotidianamente e inconsciamente, scelte di costo-beneficio che influiscono negativamente sulla salute pubblica: lo fanno, ad esempio, quando viaggiano in macchina o in autobus. Più di 3000 persone muoiono annualmente in Italia per incidenti stradali; altre 15.000 sono le vittime a causa dello smog: non per questo sono stati banditi i mezzi a motore. Oppure, per rimanere in argomento COVID-19, perché non desta scandalo che il Governo abbia lasciato aperti i tabaccai e libera la vendita di sigarette, malgrado il fumo, oltre a uccidere quasi 100mila persone l’anno (14% di tutti i decessi totali in Italia), sia anche un fattore di complicazione e decesso nella polmonite di Wuhan?

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Il pensiero magico-scientista

Sembra una contraddizione in termini, ma la scienza viene spesso utilizzata da taluni come un insieme di mantra e precetti di natura quasi mistica. L’affermazione “lo dice la Scienza” è in genere rivelatrice sull’ignoranza scientifico-epistemologica di chi la utilizza: “la scienza” non parla con voce univoca di fenomeni che si sono appena cominciati a studiare. Ancora una volta rimandiamo al recente Dossier del Machiavelli per esempi di scienziati che vagliano alternative o succedanei al lockdown per affrontare l’emergenza sanitaria. Per molti è però necessario che ci sia una Scienza con la “s” maiuscola che dia certezze assolute in quest’epoca di agnosticismo religioso. Inoltre, la negazione del confronto e del dibattito, caratteristica della forma mentis politicamente corretta, sta contagiando pure la scienza: si pretende essa divenga dogmatica ed elitaria o, come dice qualcuno, “non democratica”. Si pensi alla più postmoderna delle scienze, gli studi di genere, all’interno dei quali tutti seguono la medesima teoria. Altre concezioni scientifiche, come il cambiamento climatico d’origine antropica, sono divenute articoli di fede in un nuovo credo apocalittico.

Il discrimine classista

Se la percezione delle ricadute negative del lockdown è così differente all’interno della popolazione è perché, semplicemente, queste ricadute non sono le stesse per tutti. C’è una grossa differenza tra chi sta vivendo il confinamento domestico in una villa con giardino, o in uno spazioso appartamento con terrazza, e chi invece lo vive in sovraffollati bilocali o seminterrati. C’è un’enorme differenza tra chi può lavorare da casa e continuare a ricevere lo stipendio, o è pensionato, o è tanto abbiente da potersi permettere lunghi periodi senza reddito, e chi invece di punto in bianco si è trovato senza entrate necessarie, e guarda con angoscia a un’impresa o attività che rischiano di non sopravvivere ma senza le quali non sa come mantenere la sua famiglia. Il lockdown può essere una strategia ottimale per un ricco manager pubblico, e nello stesso tempo risultare letale per il padrone di un piccolo negozio che garantisce l’unico reddito familiare.

 

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.