Assurta a ruolo di grande potenza dopo il “secolo dell’umiliazione”, la Repubblica Popolare Cinese rappresenta il metus più grande dell’attuale generazione di decisori americani. L’immagine della Cina come sfidante dello strapotere americano è corroborata da un’ascesa molto rapida, che, specie nel campo economico, ha del miracoloso; basti pensare che durante la campagna elettorale americana del 2016 il grande nemico nell’opinione pubblica americana era ancora la Federazione Russa. Come spesso accade in politica internazionale, tuttavia, nel sentire comune il “mito geopolitico” supera spesso la reale disposizione delle forze in campo, mentre l’analisi si riduce a semplice wishful thinking. Quali sono le reali prospettive dello scontro USA-Cina?

L’ipotesi di un conflitto convenzionale è assolutamente impietosa. Sebbene la Repubblica Popolare abbia fatto grandi passi per quel che riguarda la sfera militare, il gap con gli USA è ancora incolmabile. Si parla di circa 13.000 velivoli militari americani contro i 3200 cinesi, di 6500 carri armati da battaglia contro i 3500 della Repubblica Popolare. Per quel che riguarda la flotta militare, vero ago della bilancia di un potenziale conflitto nel Pacifico, gli Americani possono contare su 19 tra portaerei e navi da assalto anfibio, di cui 10 portaerei a propulsione nucleare Nimitz – le navi militari più grandi del pianeta – mentre il Celeste Impero si affida a due sole portaerei (più una terza in costruzione), nessuna delle quali a propulsione nucleare. È grazie alla superiorità schiacciante sul mare che gli USA si possono permettere di chiudere le mire cinesi nei mari rivieraschi, mantenendosi sempre offensivi. Come ha notato Mearsheimer, inoltre, la geografia della regione pacifica, essendo molto diversa da quella europea, elude in parte la pace imposta dalle armi nucleari e lascia spazio al combattimento di un conflitto convenzionale tra gli arcipelaghi del Mar Cinese Meridionale.

L’approccio cinese al conflitto con gli USA riflette questa inferiorità convenzionale e si sviluppa su tre direttrici differenti, con l’adozione del concetto di guerra asimmetrica. Da una parte la “dottrina delle tre guerre” o di “political warfare” del 2003 si basa sulla manipolazione mediatica per scalzare il primato culturale americano, sullo sfruttamento dei sistemi legali internazionali per compromettere capacità di risposta avversarie e sulla conduzione di operazioni psicologiche per intimidire potenziali nemici (come insegna lo stesso Sun Tzu). Sul piano militare la dottrina delle guerre locali informatizzate del 2014 sviluppa il dominio informatico come campo dello scontro, con la creazione di infrastrutture per la cyberguerra imponenti, e al contempo punta allo sviluppo di una marina militare da acque profonde che possa ricacciare gli americani oltre la “prima catena di isole”. Infine la Cina spera di trovare nella tecnologia l’arma totale per colmare il gap tecnologico con l’esercito americano, con ricerche che spaziano dal campo dell’AI allo sviluppo di armi ipersoniche.

La condizione geografica, però, è particolarmente sfavorevole all’Impero del centro. L’accesso al mercato globale di Pechino passa per i Mari Cinese Meridionale e Orientale. Gli attori regionali sono per lo più potenze ostili alla Cina e vicine agli Stati Uniti proprio per la paura del gigante rosso; questa situazione di tensione si riflette negli attriti delle acque e degli arcipelaghi contesi: le isole Paracelso, rivendicate dal Vietnam, le isole Spratly, contese con Vietnam, Filippine e Brunei, le Sengaku, contese con il Giappone; oltre al dilemma rappresentato da Taiwan, l’isola ribelle, che ha confermato nelle ultime elezioni la sua volontà di non allinearsi a Pechino. La diffusa paura cinese nella regione apre il campo agli Americani, che si sono dotati di una vera e propria “collana di perle” di basi militari per strangolare il Dragone nel suo stesso mare. Importanti basi aeree sono presenti in Corea del Sud e Giappone, importantissime installazioni per la marina a Singapore e Okinawa, mentre l’unico approdo occidentale in Asia continentale, la Corea del Sud, è presidiata da 28.000 militari americani, cui si aggiungerebbero in poco tempo i 55.000 di stanza in Giappone.

L’assetto della globalizzazione è un’arma a doppio taglio per Pechino. Da un lato l’essere il più grande produttore di merci del pianeta è la base della crescita economica strabiliante, dall’altra impone di dipendere da un mare su cui la Cina è in netto svantaggio sul rivale. Le merci cinesi passano per colli di bottiglia tradizionalmente ostili (Singapore snodo obbligato e di lì Gibuti-Suez per l’Europa). La grande fabbrica cinese ha inoltre bisogno di una quantità di materie prime impressionanti, che non può essere soddisfatta dalla sola cooperazione con la Russia. È il cosiddetto “dilemma di Malacca”, dal nome dello stretto nei pressi di Singapore per cui passa l’80% del greggio usato in Cina e il 60% del suo interscambio commerciale. In caso di conflitto, un embargo prolungato toglierebbe alla Repubblica Popolare sia carburante sia impiego. In questo senso è da intendersi il titanico progetto della BRI, che vuole essere il tentativo di ritagliare uno spazio controglobalizzato nel mare americano.

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Le Vie della Seta rappresentano il progetto infrastrutturale più grande mai tentato dall’uomo e svolgono molteplici funzioni nella strategia di Pechino di assedio al primato americano. In primis strutturano dei canali alternativi per il circolo di merci, meno soggetti al controllo rivale. In secondo luogo, rappresentano una proiezione di soft power notevole, grazie agli investimenti nei paesi interessati che spesso svendono asset strategici di fronte a grandi somme di denaro (infrastrutture portuali come Genova, Trieste e il Pireo hanno enorme presenza di investimenti cinesi) e alla possibilità di fare cadere i paesi meno sviluppati nella “trappola del debito”, essendo le infrastrutture marittime e ferroviarie realizzate su anticipo cinese. A livello narrativo riconsacrano la Cina “Impero di mezzo” e caput viarum del terzo millennio, con un grande effetto sulla sua immagine internazionale. La loro realizzazione presenta però ancora molte incognite, come il fatto di passare per paesi dalla scarsa stabilità politica, che le espone a sabotaggi abbastanza facili. Centrale inoltre il tema del riscaldamento globale, che potrebbe aprire al grande commercio anche una “via della seta artica” – adesso praticabile solo per pochi mesi all’anno – che sarebbe l’unica rotta commerciale a sfruttare percorsi fuori dal controllo americano.

Grande incognita, il coronavirus è una variabile caotica del confronto più importante del terzo millennio. L’America paga un dazio strutturale e rischia una catastrofe sanitaria senza precedenti, con la conta dei morti già oltre i 40.000. La Cina dal canto suo rischia di vedere distrutta la sua credibilità internazionale, come fonte della diffusione e colpevole del contagio per le misure di censura. Sulla scia di questa tensione, aziende americane, nipponiche e in parte europee hanno annunciato che porranno fine alle delocalizzazioni in Cina, duro colpo economico e di immagine. Di qui lo sforzo cinese per l’invio di aiuti in ogni angolo del pianeta. Per concludere, un risvolto potenzialmente positivo per il Dragone è che l’economia cinese potrebbe ripartire mesi prima di quelle occidentali, esponendo alcuni paesi – specie quell’Europa “ventre molle” dell’impero americano – a feroci investimenti in campi strategici.

Facendo una summa delle nostre considerazioni, si può affermare che l’equilibrio di potere è ancora estremamente favorevole agli USA, sebbene meno che anni fa. La Cina ne è ben consapevole e tenta di accrescere la propria potenza senza mai incrociare direttamente le armi con l’egemone, aspettando un momento più favorevole – forte di una stabilità politica che permette piani cinquantennali. Resta da vedere se non saranno gli USA, in un futuro non troppo lontano, a sabotare l’ascesa pacifica del rivale, sfruttando magari uno degli innumerevoli attriti degli arcipelaghi pacifici.

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Studia la comunicazione politica, la narrazione, la capacità di creare miti e simboli per comprendere fino a che punto questo velo sia in grado di mascherare la realtà dei fatti. Proviene dal mondo del giornalismo, incubatore assieme all'università dei grandi miti post-moderni.