di Daniele Scalea
Dopo due mesi di confinamento per l’intera popolazione italiana, il Paese si appresta a muoversi cautamente verso la “Fase 2”, ossia quella della riapertura. In realtà il processo sarà molto graduale, secondo quanto raccontato dal premier Conte. Si è capito che vi sono resistenze, nell’ormai famoso (o famigerato?) Comitato Tecnico-Scientifico, quanto tra l’opinione pubblica (“lockdownextension” era in tendenza su Twitter pochi giorni fa e già si è descritto con quanto ardore alcuni difendano le ragioni di una chiusura a oltranza).
Eppure, viene da chiedersi: è financo lecito, e in qual misura, per uno Stato democratico e liberale imporre ai cittadini misure restrittive come quelle del lockdown a fini sanitari? Senza imbarcarci in complessi e tecnici discorsi circa la specifica costituzione nazionale, ragioniamo più filosoficamente sulle caratteristiche che rendono la nostra società libera, come generalmente la riteniamo essere.
Tale carattere di libertà discende dalle libertà che lo Stato lascia ai suoi cittadini; ovvero, pre-esistendo l’individuo e i nuclei sociali fondamentali (la famiglia su tutti) allo Stato, meglio sarebbe dire “libertà che lo Stato non sottrae loro”. Saremo tutti d’accordo nel sostenere che, normalmente, sono libertà essenziali del cittadino il movimento negli spazi pubblici e aperti (cioè poter uscire di casa), lavorare e intraprendere per procacciarsi mezzi di sostentamento, incontrarsi e riunirsi con familiari e amici. La legge disciplina taluni aspetti di condotta (ad esempio vieta alcune “professioni”, deliberate illegali, o impedisce di schiamazzare nelle ore notturne), ma giammai si può sognare di sopprimere tali libertà. Vero però che un’epidemia non è condizione normale.
La ragione per cui le libertà individuali sono disciplinate è riassumibile nel noto adagio per cui “la libertà di uno finisce laddove cominciano quelle altrui”. In situazione d’epidemia, potremmo adattarlo nel fatto che a un malato sia imposta la quarantena per impedirgli di contagiare altri, ossia di violare il loro diritto alla salute. Tuttavia, il lockdown si spinge ben oltre: sebbene i malati siano solo una parte minoritaria, l’intera popolazione è sottoposta a misure restrittive. Nel momento in cui mancano i mezzi per accertare l’effettiva condizione di salute (mancano cioè test per tutti), l’individuo che non presenta sintomi può ragionevolmente ritenersi sano. Ciò che fa non pregiudica la libertà altrui. La ratio delle restrizioni universali è dunque un’altra: prevenire il possibile contagio impedendo all’individuo di porsi in condizione di contrarlo.
Tale fine non è certo irragionevole, ma necessita di ulteriori valutazioni. Esse riguardano la severità delle restrizioni e la consistenza del pericolo. Ben diverso, infatti, è proibire di recarsi in una determinata zona in cui imperversa una malattia con mortalità d’oltre l’80% (tipo l’ebola), rispetto al proibire di uscire da casa propria per una malattia la cui mortalità è dello 0,5%, con notevoli variazioni in base all’età. Un gruppo di ricercatori della Stanford University ha stimato che un italiano con meno di 65 anni abbia le stesse probabilità di morire da Covid-19 che ne avrebbe di perire per incidente stradale percorrendo sette volte il tragitto Roma-Milano.
Finché si parla di rischio individuale, il proseguimento del lockdown non appare giustificabile. Da due mesi cittadini sani sono privati dei diritti più elementari – uscire di casa, lavorare, incontrare altre persone, portare i propri figli all’aperto. Stando alle previsioni degli epidemiologi, tale regime estremamente restrittivo dovrebbe rimanere in essere per tempi molto lunghi: mesi, se non anni, con rilassamenti solo lievi e temporanei. In tale contesto, è convinzione di chi scrive che dovrebbe prevalere il principio di responsabile libertà individuale: a ciascun cittadino dovrebbe essere permesso di scegliere se rimanere chiuso in casa a oltranza in attesa del “rischio zero”, ovvero se uscire e vivere la propria vita consapevole del rischio che corre. Lo Stato non può imporre mesi e mesi di detenzione domiciliare come forma di autotutela; di converso, chi non si sentirà sicuro a uscire potrà passare recluso anche la “Fase 2” e tutte le fasi successive dell’emergenza sanitaria. Nessuno lo costringerà a uscire di casa se non vuole farlo. Ma è intollerabile che liberi cittadini siano costretti a veder fallire le proprie attività economiche, quelle grazie a cui sopravvivono, senza nemmeno che lo Stato garantisca loro un serio indennizzo. Tale discorso vale anche per certi regolamenti futuri ipotizzati che, in ambiti come quello della ristorazione, porranno fuori mercato diverse imprese. Rispetto al rischio per sé stessi deve dunque prevalere la libertà individuale – o lo Stato in futuro potrà ben pretendere di proibire a ciascun cittadino stili non salutari: fumo, obesità, sedentarietà sono all’origine di un’enorme quantità di morti (basti pensare che annualmente 1/8 dei morti in Italia è dovuto al tabagismo).
La Covid-19 ha però una significativa differenza: diversamente dal fumo o dall’obesità, è contagiosa e trasmissibile ad altri. C’è allora da interrogarsi: è legittimo che un cittadino sano sia privato dei diritti più elementari non per tutelare lui, bensì per tutelare gli altri? Ossia confinarlo perché altrimenti potrebbe infettarsi e, se ciò si verificasse, potrebbe trasmettere il virus ad altri? Persone diverse daranno risposte diverse a tale domanda, in base alla propria sensibilità. Ecco cosa ne pensa chi scrive:
a) le misure di protezione devono riguardare chi cerca protezione. Conculcare i diritti essenziali di una persona per mesi è un costo che non può essere ignorato con una scrollata di spalle perché “salvare una vita vale più di qualsiasi altra cosa”. In Germania il Presidente del Parlamento ha protestato che la dignità sia valore non meno prezioso della vita. Il cittadino non può essere ridotto a un possibile veicolo di virus e null’altro. La persona che desidera essere più protetta va salvaguardata in sé stessa, non colpendo tutti gli altri. Misure focalizzate sui soggetti da proteggere sono quelle che permettono a chi vuole mantenere un regime di confinamento di farlo: ad esempio, aiutare gli anziani che lo desiderano recapitando a domicilio la spesa. Le uscite per necessità devono essere rese il più sicure possibile, ma ciò non si può realizzare eliminando la presenza di tutti gli altri. Si potrebbe pensare di tutelare i lavoratori che devono recarsi al luogo di lavoro riservando i mezzi pubblici, in particolare nelle fasce orarie di loro interesse, solo a chi si muove per necessità. O ancora consentire l’accesso a supermercati e negozi solo se dotati di mascherina o comunque con naso e bocca coperti. In questo caso ai cittadini sarebbero imposti degli oneri aggiuntivi, ma ragionevoli e senza conculcare diritti fondamentali.
b) strategie estreme sono ammissibili se danno risultati rapidi e certi. Se qualcuno ci avesse prospettato di eliminare il rischio terrorismo isolando tutti i musulmani d’Europa, l’avremmo guardato come a un pazzo o a un criminale. Non perché la sua ricetta non avrebbe funzionato (essendo tutti i terroristi musulmani, confinare ogni musulmano avrebbe confinato anche i terroristi e dunque salvato vite umane), ma perché sarebbe stata sproporzionata (solo una frazione di musulmani sono terroristi, ergo gravi misure restrittive si sarebbero abbattute principalmente su innocenti). Gli epidemiologi concordano che il lockdown funzioni e non c’è ragione di dubitarne: per logica, se s’impedisce di circolare alle persone, s’impedisce di circolare anche al virus. Pure in questo caso, però, il problema è la proporzionalità. Il lockdown è riconosciuto come particolarmente efficace se approntato in una fase iniziale per arginare la diffusione del virus. In Italia è probabile che il virus fosse presente già da mesi prima della proclamazione del lockdown. Qual è stata la sua reale efficacia? Molti modelli matematici stimano abbia salvato migliaia di vite. Tuttavia ci sono studi che non hanno riscontrato differenze nella riduzione del contagio tra dove è stata applicata la serrata totale e dove misure di distanziamento sociale più blande (chiusura scuole e uffici, cancellazione eventi pubblici, chiusura dei confini esterni) sono state adottate. L’Europa sta osservando con attenzione cosa succede in Svezia, dove la decisione di non adottare il lockdown non sembra abbia fatto schizzare in alto la mortalità (ci sono più vittime che in Norvegia o in Finlandia, ma molte meno che in Spagna, Italia, Francia e Gran Bretagna), mentre senza dubbio sta salvaguardando il benessere economico del Paese. E il benessere economico, come già si è spiegato, determina anche la salute futura della popolazione. Per giunta, i risultati del lockdown non sembrano definitivi: moltissimi esperti mettono in guardia da recrudescenze nel momento in cui partirà la “Fase 2” o in autunno. Ciò significa che la serrata starebbe sì abbassando la curva epidemica, ma non eradicando il virus, solo spalmandone l’incidenza su un più lungo periodo di tempo.
In conclusione, rispondiamo a una probabile obiezione: che tutto il discorso fatto finora sarebbe valido salvo che in guerra, quando lo Stato chiede ai suoi cittadini di combattere e sacrificarsi; ed ora stiamo combattendo la guerra contro la Covid-19. Quella bellica è però solo una metafora: l’Italia non è realmente in stato di guerra, è in stato d’epidemia diffusa. La guerra e il lockdown sono due situazioni differenti, per certi versi persino agli antipodi. In guerra, infatti, viene chiesto ai cittadini di rischiare sé stessi per salvare la nazione. Oggi, col lockdown, si chiede ai cittadini di mettere a repentaglio la nazione affinché nessuno debba rischiare sé stesso.
Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.
Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).
Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.
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