di Lorenza Formicola

Il sedicente Stato Islamico non ha più il controllo amministrativo di alcun territorio. Eppure riesce a mantenere reti di supporto, linee di comunicazione e forniture, in Iraq e Siria. Nascosti, ma non sprovvisti di armi e denaro, ci sono ancora oltre 30.000 membri del gruppo attivi. E con le amministrazioni locali, insieme a quelle mondiali, distratte dal coronavirus, è stato registrato un brusco aumento dell’attività dell’Isis.

Il 9 aprile, uomini armati dell’Isis hanno attaccato e sequestrato la città di al-Sukhna, nel deserto della provincia centrale di Homs. Gli aerei russi hanno risposto lanciando una serie di raid contro le posizioni dei jihadisti, e ne sono seguiti scontri tra i terroristi e gli uomini di Assad. Nello stesso periodo, nella provincia orientale di Deir al-Zor, i jihadisti sunniti hanno giustiziato una donna, fatto esplodere mine, condotto attentati nelle città di al-Jala, al-Siyal e al-Abbas: il bilancio delle vittime dal 24 marzo ad oggi è salito senza dare troppo nell’occhio a 377. Il problema delle cellule dormienti resta acuto e l’Isis non intende fermare la sua corsa continuando a destabilizzare la regione con continui attentati.

Anche l’Iraq ha assistito a una rinnovata violenza dell’Isis nei giorni della pandemia. Per lo più s’è trattato di scontri uomo a uomo, e che hanno trovato agio dalla ridistribuzione delle forze armate statunitensi in Iraq nelle ultime settimane e dalla continua paralisi del sistema politico. Lo schema degli eventi conferma l’esistenza delle reti di approvvigionamento e supporto dell’Isis, attraverso le quali i membri si muovono in sicurezza delineando il “califfato fantasma” nel territorio che una volta amministrava. I movimenti del sedicente Stato Islamico sono una miccia a lenta combustione, ma sono la prova che le “vittorie” nelle guerre in Siria e Iraq hanno risolto poco.

Il coronavirus ha sicuramente offerto un trampolino per il terrorismo islamico tutto lanciato ad aumentare il ritmo degli attentati. Ma con o senza la pandemia, il “califfato fantasma” è lì per restare. Anche perché ancor prima del virus, la coalizione guidata dagli Stati Uniti era stata costretta  ad assumere una posizione difensiva. Gli Usa si sono ritirati dalle basi operative in prima linea a Mosul, Al-Qaim, Qayyarah, Kirkuk e Taqaddum nell’ultima settimana di marzo.

Nel frattempo per lo Stato Islamico il coronavirus ha rappresentato un’opportunità per colpire gli infedeli: esso è visto come un segno della potenza suprema di Dio negli Stati occidentali considerati, ormai, “una tigre di carta”. Cosa che ha in qualche modo anche galvanizzato gli animi dei terroristi, più desiderosi che mai di trarre vantaggio dalla distrazione e dalla distruzione causata dal nuovo coronavirus. Anche perché loro si sentono già pronti ad ogni situazione di confinamento e di restrizioni. Le cellule sono normalmente isolate, evitano il rischio di contagio, eseguono un distanziamento sociale estremo e lo fanno praticamente da sempre. Vivono in nascondigli remoti e rifugi sotterranei, hanno le loro riserve alimentari e utilizzano molto l’energia solare.

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I prossimi passi dello Stato islamico sono facili da indovinare. Aumenteranno le incursioni nei villaggi locali e con l’intimidazione e i rapimenti aumenterà anche la capacità di raccogliere fondi. Il confinamento, che tiene impegnati i governi di tutto il mondo e distratte le forze locali, renderà più facile realizzare bombe e collocarle nei nascondigli su percorsi ben delineati. Seguirà un pattugliamento capace di dominare psicologicamente le popolazioni civili e in breve gli insorti diventeranno i mediatori del potere locale: esattamente come successo nel 2012, dopo il precedente ritiro degli Stati Uniti.

La macchina non è ripartita, semplicemente non si è mai fermata e adesso ha solo trovato un po’ di benzina persa per strada. L’unico modo per fermare una rinascita dello Stato Islamico sarà dare nuovo vigore a un’efficace campagna antiterrorismo che il mondo sembra aver dimenticato. E magari approvare qualche ritiro militare in meno.

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Saggista e pubblicista, è analista del mondo arabo e islamico. Si occupa di immigrazione e sicurezza, con una particolare attenzione alla nuova islamizzazione dell'Europa. Scrive soprattutto per "La Nuova Bussola Quotidiana", "Analisi Difesa" e "Il Giornale".