di Guglielmo Picchi e Andrea Bandelli

Il sistema economico italiano si trova ad affrontare un lock-down generalizzato e prolungato che ha avuto e avrà conseguenze molto pesanti sulla tenuta del nostro tessuto imprenditoriale, sulla sua capacità di preservare l’integrità delle catene del valore e sulla capacità delle nostre aziende di ritornare ai livelli produttivi ed occupazionali ante virus.

La grave crisi provocata dal COVID19 ha reso evidente la necessità, sia per le imprese che per gli Stati Nazionali (e questo costituisce un elemento di novità), di concentrare l’attenzione sull’analisi dei rischi e delle criticità conseguenti alle delocalizzazioni di singole aziende, di intere filiere produttive o parti di esse.

I rischi principali e le maggiori criticità della delocalizzazione si possono così sintetizzare:

  • perdita del controllo di informazioni rilevanti;
  • mancanza di tutela adeguata della proprietà intellettuale;
  • difficoltà ad assicurare determinati standard qualitativi dei beni e servizi prodotti;
  • dilatazione della logistica e interruzione delle supply chain di aziende o filiere;
  • impossibilità di garantire la sicurezza nazionale in settori strategici.

Tra le situazioni recenti in cui si sono ravvisate queste criticità possiamo ricordare:

  • non autosufficienza nella produzione nazionale di dispositivi di protezione individuale e di ventilatori polmonari per le terapie intensive;
  • protezione dei dati e della privacy nel caso della adozione della tecnologia 5G;
  • assenza di software, data centers e server nazionali per la gestione dei trojan da usare nelle intercettazioni a fini investigativi e giudiziari;
  • interruzione delle forniture di componenti e semilavorati alle aziende nazionali.

È proprio in questo contesto che diversi governi in ambito europeo ed occidentale hanno messo a punto misure e strategie volte ad incentivare le grandi industrie locali, che nei decenni passati avevano delocalizzato, a riportare singole unità produttive, intere filiere di produzione o parti di esse in patria, con l’obiettivo di accrescere sia l’occupazione diretta sia quella dell’indotto, così mitigando l’annoso e diffuso problema dei tassi di disoccupazione e conseguentemente incrementare il Prodotto Interno Lordo nazionale aumentando contemporaneamente la resistenza della catena di rifornimento agli shock esterni di qualsiasi tipo.

Rimpatrio produttivo e societario

L’Italia è un paese manifatturiero: nel 2019 ha esportato beni per 479 miliardi di € e servizi per 107 miliardi di € (fonte: Rapporto Export 2019, SACE SIMEST) e con questi numeri si colloca stabilmente tra i primi 10 maggiori paesi esportatori nel mondo (8a nel 2019). Si comprende quindi come sia opportuna la progettazione e la realizzazione in tempi relativamente brevi di un consistente piano per il rimpatrio produttivo che riporti sul territorio nazionale produzioni di beni e servizi precedentemente (e legittimamente) delocalizzate.

Contemporaneamente si dovrebbe procedere anche al cosiddetto rimpatrio societario, che coincide solo parzialmente con l’attrazione di investimenti esteri. Si tratta infatti di una fattispecie ibrida relativa ad una impresa, detenuta da cittadini italiani o con caratteristiche di spiccata interazione con le filiere produttive presenti nel nostro Paese o semplicemente a vocazione “italiana”, che decida di ricollocare la propria sede legale e fiscale e, requisito indispensabile, alcune funzioni direzionali e centrali come “ricerca & sviluppo” e “marchi e brevetti” per poter beneficiare dell’accesso al sostegno all’export del Sistema Italia, oltre a tutti i free trade agreement cui l’Italia partecipa. Così facendo una parte del fatturato potrebbe essere ricompreso nel Prodotto Interno Lordo contribuendone alla crescita non organica.

Per l’Italia quindi l’attuazione di una sistematica ed efficace politica di rimpatrio produttivo e societario porterebbe un significativo incremento del PIL e, conseguentemente, a parità di condizioni migliorerebbe il rapporto Deficit/PIL avendo fatto crescere il denominatore, aiutando il Paese con i parametri di Maastricht e nelle complicate negoziazioni in seno alla UE. In particolare si potrebbe rafforzare in modo strutturale l’avanzo primario rendendo più agevole la riduzione e la sostenibilità del debito pubblico italiano.

Il rimpatrio produttivo in USA, UK e Francia

Negli USA, il fenomeno del reshoring è stato oggetto di specifici interventi normativi, in particolare nel Blue print dell’amministrazione Obama, che ha avviato una politica industriale basata sul back-reshoring sostenuto soprattutto dalla Reshoring Initiative di Harry Moser. Attualmente l’amministrazione Trump sta utilizzando quale misura principale la leva fiscale (con tagli delle aliquote fiscali su redditi societari dal 35 al 21 per cento), accompagnata da incentivi al rimpatrio dall’estero di capitali fino a 2.600 miliardi e da una decisa e forte moral suasion. Tra le aziende intenzionate a tornare ad investire e produrre negli USA si trovano sia aziende nate nel secolo scorso sia aziende nate in questo secolo (Apple, ATT, FCA, General Motors ed anche aziende straniere). Le stime provvisorie degli investimenti conseguenti al reshoring delle sole multinazionali vanno oltre i 70 miliardi e tutti gli studi e le simulazioni effettuate dimostrano il grande potenziale per gli Usa. Quanto alle motivazioni, dagli studi emerge che per le imprese americane è prioritaria sia l’esigenza di assicurare adeguati standard di qualità, sia i differenziali su costo del lavoro e trasporto.

In Gran Bretagna la politica di reshoring è stata avviata dall’amministrazione Cameron dopo l’annuncio al World Economic Forum di Davos nel gennaio 2014, con l’obiettivo dichiarato di creare 200.000 nuovi posti di lavoro nei settori tessile, elettronica e macchinari, e raggiungere un incremento del PIL tra 6 e 12 miliardi di sterline. Dal 2014 UK Trade Investment (UKTI) ha unito le forze con il Manufacturing Advisory Service (MAS) per il lancio di Reshore UK – Government advisor service for a welcoming economy. Già dal 2011 UKTI ha individuato 1.500 produzioni manifatturiere che potenzialmente sarebbero potute tornare in UK e un sondaggio MAS ha evidenziato come le aziende chiedessero in primis la riduzione dei costi per spostare la produzione nel Regno Unito. Le altre motivazioni riguardavano la qualità dei prodotti e la riduzione dei tempi di consegna. Quindi sono stati adottati strumenti di semplificazione normativa, di flessibilità del mercato del lavoro, di riduzione della tassazione su reddito da lavoro e reddito d’impresa, di esenzione fiscale per i dividendi realizzati all’estero dalle imprese residenti e di fornitura di energia a basso costo. MAS supporta le imprese che intendono rientrare con la consulenza su incentivi ed agevolazioni, con strumenti di supporto per l’approdo sui mercati, con interventi di coordinamento tra imprese rientranti e fornitori locali, con la consulenza per la definizione di strategie a breve e lungo termine. Infine il Diparti­mento governativo UK Trade Investment, oltre a supportare le imprese britanniche all’estero, si occupa anche di reshoring e degli investimenti di imprese estere in Gran Bretagna. I risultati sono che, tra il 2014 e il 2017, un sesto delle 300 imprese associate in EEF – The Manufacturers’ Organisation ha riportato le attività produttive in Gran Bretagna nonostante la Brexit.

La Francia ha una lunga tradizione nell’assistenza attiva agli investitori. Gli obiettivi del Governo sono la creazione col reshoring di un milione di posti di lavoro nel prossimo decennio rilanciando il «made in» (Origine France Garantie) e riorientando la competitività del Paese. In Francia ci sono forti incentivi per ricerca e innovazione e un regime fiscale attraente per società finanziarie e per sedi direzionali di grandi imprese. Nella legge finanziaria 2018 la Francia aveva deliberato specifici interventi per l’attrazione delle scelte di rilocalizzazione dei servizi assicurativi e finanziari e l’agenzia AFII (promozione investimenti in Francia) è collegata con una molteplicità di agenzie di promozione e sviluppo a livello regionale, metropolitano e organizzazioni di vario genere. Tramite il sito “Colbert 2.0” fornisce alle aziende interessate un piano di azione per la rilocalizzazione, oltre a strumenti di sostegno finanziario e a contatti con le realtà locali, ed ha istituito un Fondo di rivitalizzazione (Fond de revitalization) per favorire la rilocalizzazione in aree industriali dismesse. Recentemente Macron ha parlato apertamente della subordinazione di aiuti di Stato al settore dell’automotive con la previsione esplicita di riportare fabbriche in Francia.

Rimpatrio produttivo: alcuni dati nazionali ed europei

Una interessante indagine Istat sul trasferimento all’estero della produzione nel triennio 2015/2017 (un’indagine conoscitiva chiamata International Sourcing promossa dalla Commissione Europea), i cui dati sono ormai consolidati e definitivi, mostra che nei tre anni presi in esame solo il 3,3% delle medie e grandi imprese ha trasferito all’estero attività o funzioni svolte in Italia, contro il 13,4% del periodo 2001-2006.

Un analogo trend di ridimensionamento del fenomeno si è registrato anche a livello europeo, dove si è scesi dal 16% al 3%, e se poi si passa ai numeri assoluti la tendenza appare con ancora maggiore nettezza. Le imprese che hanno delocalizzato attività nel periodo 2015-2017 sono state circa 700 e sono prevalentemente aziende industriali (nel manifatturiero sono le industrie ad alta o medio-alta tecnologia a ricorrervi con maggiore frequenza) e anche di servizi. Sono state oltre mille le imprese (pari al 5% delle grandi e medie imprese industriali e dei servizi) che, nello stesso periodo preso in esame dall’indagine, hanno scelto di dar vita ad outsourcing di attività o funzioni aziendali precedentemente svolte all’interno, ma localizzandole in Italia; più la dimensione sale più la propensione si rafforza. Di questi mille, almeno 300 sono investimenti in outsourcing che rientrano dall’estero e quindi possiamo catalogarle come operazioni di «back reshoring» da parte di gruppi italiani, e questo ci dà la misura di come il fenomeno si stia evolvendo.

Alla domanda su quali motivi potrebbero influenzare in modo determinante ulteriori trasferimenti in Italia in un’ottica 2020, le imprese hanno risposto indicando per l’84,5% la riduzione della pressione fiscale, per il 79% specifiche politiche per il mercato del lavoro, per il 75,5% le policy di offerta localizzativa, per il 70,9% gli incentivi per l’innovazione e per le imprese industriali – in particolare il 76,9% i finanziamenti per l’acquisto di macchinari e politiche per l’offerta di lavoro qualificato (technology skilled workers).

Un altro interessante quadro del fenomeno viene dall’analisi del rapporto di Eurofond Reshoring in Europe 2015-2018 in cui l’Italia, con 39 casi, è seconda in Europa soltanto al Regno Unito (con 44 casi). Considerando che nel periodo 2014-2019 nel nostro Paese si contano circa 120 casi, è evidente che il reshoring sta assumendo una dimensione significativa, seppur ancora limitata in termini quantitativi.

Nel recente passato le motivazioni contrarie, quelle che hanno portato a delocalizzare all’estero, sono state la riduzione del costo del lavoro, giudicata molto importante dal 62,2% delle imprese e superiore come rilievo alla riduzione di altri costi di impresa (48,8%); le aziende più motivate sul costo del lavoro sono state le manifatturiere ad alta tecnologia. I Paesi destinatari di queste delocalizzazioni sono stati India (8,7%) per le funzioni aziendali di supporto come i servizi informatici e di telecomunicazioni, Stati Uniti e Canada in generale e Cina per la produzione di merci. L’ostacolo maggiore ha riguardato, invece, la difficoltà a trasferire personale all’estero.

Dall’analisi di quest’insieme di dati si evince che oggi la variabile costo del lavoro, che aveva condizionato e favorito la maggior parte delle delocalizzazioni, non costituisce più da sola un elemento determinante nella decisione di fare outsourcing oltre frontiera, anche per la difficoltà di delocalizzare la manodopera made in Italy necessaria a garantire gli standard produttivi italiani, rendendo quindi utopistico pensare di poter riproporre all’estero la straordinaria qualità del made in Italy con un costo del lavoro molto più contenuto.

Una recente analisi della Università di Udine ha individuato nell’aumento dei costi di produzione all’estero (la forza lavoro dei paesi asiatici e dell’Europa dell’est ha iniziato a organizzarsi sindacalmente), nei tempi troppo lunghi delle consegne, nella riorganizzazione globale delle aziende e nella riscoperta forza del brandmade in Italy” (specialmente adesso che le norme europee sulla sicurezza impongono l’indicazione dell’origine di tutte le merci) i principali fattori che favoriscono il reshoring. La qualità sembra aver recuperato terreno rispetto alle produzioni seriali e alle economie di scala, e sempre maggiore attenzione viene posta alla sostenibilità delle produzioni, al fair trade ed al valore umano ed ambientale. Quello che si perde spendendo di più in fase di produzione, si guadagna sul prodotto finito valorizzandone la credibilità e la qualità della produzione 100% made in Italy.

Dati economici nazionali

L’esame dei dati recentemente pubblicati dall’Istat sulle multinazionali indicano che nel 2017 le imprese manifatturiere estere a controllo nazionale erano 6.463, occupavano 857 mila addetti e realizzavano un fatturato di 238,9 miliardi di euro. L’occupazione in queste imprese risultava in salita del 6,5%, mentre saliva in modo più contenuto (0,8%) per le imprese residenti; di conseguenza le imprese residenti in Italia registravano un aumento che si limita a 29 mila addetti mentre le imprese delocalizzate a controllo italiano aumentavano l’occupazione di 52 mila unità.

In otto anni (2007-2015) l’occupazione delle multinazionali a controllo nazionale è salita di 94 mila unità (+12,5%) mentre le imprese manifatturiere residenti in Italia hanno perso quasi un milione di posti di lavoro (-985 mila addetti, pari al 21,4% in meno).

Nei grandi gruppi manifatturieri italiani predomina il fatturato generato da filiali delocalizzate all’estero, come evidenziato dall’ultima edizione dell’analisi di Mediobanca sui dati cumulativi delle maggiori società italiane, da cui si evince nel 2018 che i maggiori gruppi manifatturieri multinazionali italiani hanno realizzato il 61% del fatturato dalle vendite di insediamenti ubicati oltre frontiera (“estero su estero”).

Mentre nell’epoca della globalizzazione la delocalizzazione è stata tumultuosa (nel solo periodo 2001-2006 per esempio il 13,4% delle imprese sopra i 50 addetti ha delocalizzato funzioni all’estero e in Italia le imprese della moda hanno perso 117 mila addetti) e, pur con una minore intensità rispetto al passato, persiste ancora oggi, il rimpatrio produttivo appare un fenomeno ancora limitato. Nel periodo 2015-2017 il 3,3% delle medie e grandi imprese ha trasferito all’estero attività o funzioni svolte in Italia mentre solo lo 0,9% delle medie e grandi imprese italiane ha riportato in Italia attività o funzioni già trasferite all’estero.

Cinque pilastri per la sovranità produttiva

Proprio in questa logica la proposta politica che possa recuperare sovranità produttiva si caratterizza come strumento innovativo (con oneri limitati e con un impatto economico-finanziario positivo sul bilancio dello Stato) e si articola su cinque pilastri:

1. Soggetto Pubblico Unico: per un chiaro e semplificato rapporto con la PA (Agenzia entrate, INPS, Regioni, Enti locali, altre agenzie dello Stato per ogni autorizzazione preventiva);

2. Patti fiscali: per la certezza dei rapporti fiscali con agevolazioni e accordi preventivi stabili nel tempo che garantiscano l’attrattività del nostro Paese;

3. Patti previdenziali: per un costo del lavoro che sia competitivo con gli altri paesi UE ed extra UE;

4. Patti territoriali: per l’ordinato sviluppo economico del territorio, il recupero di aree industriali dismesse e l’accesso a strumenti regionali di sostegno alle attività rientrate;

5. Riforma del rito delle imprese: per la chiarezza, la velocità di una giustizia al passo con altre giurisdizioni straniere.

Tutti i pilastri sopra descritti si sostanziano in un pacchetto di misure:

  • a sostegno delle imprese italiane che avevano delocalizzato la propria attività e che manifestino un interesse reale e concreto a far rientrare tutta la produzione in Italia e ne garantiscano il mantenimento per almeno un quinquennio, al raggiungimento di certe condizioni di investimento, di posti di lavoro, di responsabilità sociale e ambientale prorogabile di altri 5 anni (rimpatrio produttivo);
  • a sostegno delle imprese che decidano di portare la propria sede legale e fiscale oltre ad alcune funzioni direzionali di gruppo quali Ricerca&Sviluppo e/o Proprietà Industriale (rimpatrio societario).
Primo pilastro: soggetto pubblico unico

– Istituzione di uno Soggetto Pubblico Unico (Agenzia Nazionale per la Sovranità Produttiva) che sia interlocutore unico per la PA con le imprese che intendano accedere al Piano. Lo Sportello Unico provvederà a stabilire apposite convenzioni con tutti gli enti della PA coinvolti al fine di stabilire le procedure necessarie per le autorizzazioni, gli accordi fiscali, previdenziali e territoriali previsti dal Piano.

– Creazione di un apposito Fondo straordinario per il rimpatrio produttivo e societario presso il Ministero dell’economia e delle finanze (il Giappone ha istituito un fondo simile da 2 mld di € per rientro di produzioni dalla Cina).

– Operatività dello sportello unico presso tutte le nostre rappresentanze all’estero (Ambasciate, consolati, uffici ICE, ENIT) per l’attrazione di investimenti esteri e il rimpatrio di attività imprenditoriali precedentemente delocalizzate, quale soggetto per:

  • identificare le imprese destinatarie del rimpatrio produttivo e societario;
  • promuovere le misure di rimpatrio produttivo e societario;
  • facilitare i rapporti con le amministrazioni pubbliche e gli enti locali interessati.

– Semplificazione delle procedure burocratiche e amministrative necessarie per avviare il trasferimento dell’attività sul territorio nazionale (equiparando investimenti esteri e rientro di investimenti italiani delocalizzati).

– Riordino della normativa ex dl 133/2014 convertito in l. 164/2014 relativo al Piano per la promozione straordinaria del Made in Italy e le misure per l’attrazione degli investimenti inserendovi anche le misure qui proposte volte al rimpatrio produttivo delle aziende italiane precedentemente delocalizzate in altri Paesi.

Secondo pilastro: patti fiscali

– esenzione IRAP

– riduzione IRES (min 12,5% tassazione Irlanda)

  • pari al 50% se imponibile rimpatriato oltre 10 milioni di €
  • pari a 40% se imponibile rimpatriato tra 1.000.000 e 9.999.999 di €
  • pari a 30% se imponibile inferiore a 1 milione di €

– applicazione norme Iperammortamento a tutti gli investimenti in nuovi beni strumentali

– rifinanziamento legge Sabatini (estesa ai settori industria 4.0)

– accordi fiscali preventivi equivalenti (incluso definizione di transfer pricing) a quelli degli investitori esteri

– revisione di un Patent Box rafforzato per tutte le proprietà intellettuali (in particolare marchi d’impresa e brevetti industriali) oggetto di reshoring

Terzo pilastro: patti previdenziali

– agevolazioni in materia di assunzioni a beneficio delle aziende rimpatriate. In particolare riduzione del versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un limite massimo di 10.000.000 di euro l’anno per cinque anni a valere sulle nuove assunzioni con contratti a tempo indeterminato

  • pari al 60% per assunzioni maggiori di 50 unità
  • pari al 50% per assunzioni tra 1 e 49 unità

– possibilità di accedere agli strumenti forniti dalla contrattazione di prossimità sia a livello aziendale che territoriale

– regime speciale in favore dei lavoratori dipendenti delle aziende rimpatriate che, seguendo il datore di lavoro, si trasferiscano nel nostro Paese. In particolare si concede loro che i redditi da lavoro siano computati ai fini fiscali soltanto per il 60% per cento per la durata di cinque periodi di imposta (modificando la normativa attualmente vigente)

– credito d’imposta per le spese di formazione 4.0 del personale dipendente nel settore delle tecnologie previste dal piano nazionale Impresa 4.0

Quarto pilastro: patti territoriali

Istituzione di “Patti per lo Sviluppo territoriale” volti alla valorizzazione di distretti economici e strategici territoriali (identificati dalle Regioni) e al completamento delle filiere con obiettivo miglioramento capacità occupazionale e incremento indotto (il fondo viene istituito dal governo, viene approvata la distribuzione del fondo nella Conferenza Stato-regioni). Le regioni, sul modello degli accordi di programma, utilizzano il fondo per incrementare l’attività dei distretti economici territoriali, consolidandoli dalla formazione alla ricerca e ampliandoli nella fase produttiva e commerciale, inoltre riportando parte di produzioni di filiera sul territorio.

Le regioni istituiscono strutture dedicate al fondo, sul modello degli accordi di programma, che seguono tutta la parte burocratico/tecnica con il vincolo che tra la stipula dell’accordo e tutte le autorizzazioni trascorra un tempo massimo di 45 giorni, poi scatta il “silenzio-assenso”.

I “Patti per lo sviluppo territoriale” possono essere stipulati tra la regione e le filiere produttive, le associazioni di categoria, i singoli promotori di iniziative produttive nuove o già esistenti al fine di migliorare l’indotto economico e la capienza occupazionale, e sono utilizzabili nella piena flessibilità, con precisi vincoli di obiettivi occupazionali e di indotto, possono abbattere oneri urbanistici, fiscali, costi energetici e di produzione, costi di lavoro o possono sostenere export e commercializzazione di prodotti.

Alcuni esempi concreti: rigenerazione urbana di singole aree, agevolazioni alla contrattualistica di secondo livello, welfare aziendale, formazione professionale e tecnica anche in accordo con università e scuole, abbattimento costi energetici, infrastrutture e trasporti, digitalizzazione, attrattivitá turistica, trasformazione prodotti e commercializzazione.

Specifiche norme devono essere introdotte per il recupero di siti produttivi dismessi o specifiche aree industriali depresse:

– attribuzione di un credito di imposta in favore di coloro che, ricollocando nel nostro Paese le attività produttive/commerciali/direzionali precedentemente delocalizzate all’estero, effettuino investimenti di riqualificazione o riconversione di aree industriali dismesse al fine di eleggervi la propria sede. Il credito di imposta si applicherà nella misura del 50% delle spese sostenute per gli interventi fino ad un importo massimo di 5.000.000 euro ad azienda;

– gli enti locali potranno escludere dal patto di stabilità interno gli investimenti finalizzati alla riqualificazione di aree industriali dismesse che saranno occupate da rimpatrio di produzioni.

Quinto pilastro: riforma “rito delle imprese”

L’amministrazione del contenzioso giudiziario deve essere rapida ed efficace per tutte le imprese che aderiranno al programma di rimpatrio produttivo e societario. Sarà quindi necessario concretizzare la riforma del “rito delle imprese” e la competenza delle sezioni specializzate attuando il proposito del legislatore del 1993 di perseguire il beneficio di accelerazione dovuto alla “specializzazione” in senso tecnico-giuridico dell’organo giudicante e “promuovere le condizioni per una ripresa del Paese basata essenzialmente sullo sviluppo di autonome attività d’impresa”.

Si deve rivedere la competenza territoriale in materia non solo societaria ma anche in tema appalti pubblici e con specifico rito, ed anche dei principali rapporti commerciali tra imprese, come quello della rapida riscossione dei crediti con altro nuovo rito di ingiunzione e prevedendo, in corrispondenza a tali “spostamenti” di competenza anche nella più ampia prospettiva della revisione della geografia giudiziaria, le adeguate variazioni delle piante organiche dei magistrati e del personale amministrativo degli uffici giudiziari interessati, basandosi su un nuovo sistema di assegnazione degli affari ed una task force utile a prevenire i flussi di contenzioso nonché la possibilità di organizzazione di quelli “specializzati” anche con formule dipartimentali raggruppanti più sezioni.

L’azione si concentrerà:

– sulla rivisitazione delle sedi sezioni in base alla consistenza qualitativa/numerica e della distribuzione sul territorio nazionale del contenzioso interessato dalla riforma;

– sull’opportunità di ripensare l’intervento d’urgenza, magari riprogettando la sua esecutività;

– sulle semplificazioni della competenza ed affidamento con rito semplificato della soluzione delle controversie in materia di appalti;

– sulla composizione del Giudice e potenziamento del potere del Presidente del Tribunale o della Corte di Appello di assegnare con rapido passaggio della trattazione dell’affare ai Giudici specializzati;

– sulla più rapida trattazione della materia degli appalti;

– sulla istituzione di un moderno e rapido strumento di ingiunzione utile alla rapida riscossione dei crediti tra imprese;

– sul superamento del minuzioso catalogo dei singoli affari di competenza il quale, come tutti i cataloghi, pur contenendo clausole generali, finisce per risultare incompleto e dare luogo a moltiplicazione di questioni preliminari in tema di competenza.

La sezione non tratterà più “cause” ma “affari” che comprenderanno, nella concreta operatività del giudice, il più ampio potenziamento del perseguimento di soluzioni stragiudiziali con componimento attraverso proposte di soluzione della lite.

Obiettivi del piano italiano di rimpatrio produttivo e societario 2021-2026

L’obbiettivo del piano è quello di riportare in Italia il 25% delle aziende e delle produzioni attualmente detenute all’estero nell’arco del periodo di durata iniziale delle misure. Dalla tabella sottostante emerge chiaramente la potenzialità, che può arrivare fino a incremento potenziale di PIL di 120 miliardi di € e 400.000 nuovi posti di lavoro.

  Rimpatrio produttivo Rimpatrio societario
Numero aziende coinvolte 1650 100
Maggior PIL diretto € 60.000.000.000 € 15.000.000.000
Maggior occupazione diretta 225.000 2000
Maggior PIL indotto € 45.000.000.000 n/a
Maggior occupazione indotta 175.000 n/a
Minori importazioni beni e servizi equivalenti € 10.000.000.000 n/a
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Conclusioni

Il rimpatrio produttivo e societario rappresenta una opportunità ed anche una necessità per il nostro Paese che può valere ben 400.000 nuovi posti di lavoro e 120 miliardi di PIL aggiuntivo.

Dovremo pertanto cercare di massimizzarne nel più breve tempo possibile i risultati in termini di ricchezza prodotta, di nuovi posti di lavoro, di maggiore consistenza del nostro PIL e di qualità e solidità del nostro sistema produttivo. In questi casi la decisione e la velocità nella esecuzione sono determinanti al pari della validità del modello utilizzato e degli strumenti e incentivi messi a disposizione delle imprese.

Per il Centro Studi Machiavelli è responsabile del programma di ricerca su "Reshoring e rilocalizzazione d'impresa". Laureato in Economia (Università degli Studi di Firenze), Dottore Commercialista, Revisore legale e socio fondatore di uno Studio professionale specializzato in consulenza societaria e fiscalità nazionale ed internazionale.

Direttore per le Relazioni internazionali del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Deputato nelle legislature XV, XVI, XVII, XVIII e Sottosegretario agli Affari Esteri durante il Governo Conte I. Laureato in Economia (Università di Firenze), Master in Business Administration (Università Bocconi), dirigente di azienda bancaria.