di Guglielmo Picchi
Dopo settimane di controffensiva e non poche dispute di tipo tribale le milizie del GNA hanno finalmente strappato la cittadina di Tarhuna alle forze del LNA di Khalifa Haftar, che perde l’ultima presenza in Tripolitania e ora avrà seri problemi tra le fazioni in Cirenaica.
Era inizio aprile 2019 quando fu lanciata da Haftar l’offensiva militare “lampo” (pare benedetta pure da Trump in una presunta telefonata) che doveva portare alla caduta di Tripoli in pochi giorni, già entro l’inizio del Ramadan a maggio. Oggi il noto epilogo che segue alla caduta della base aerea di Al Watiya e la totale disfatta della milizie pro Haftar. Il LNA era riuscito ad avanzare forte del sostegno dei contractor russi di Wagner e degli afflussi di armi da parte dell’Egitto di Sisi e dei soldi degli emiratini. Pareva destinato ad un successo scontato seppur non nei tempi e nei modi comunicati dalla propaganda haftariana.
Nel frattempo l’Italia rimaneva ai margini degli eventi come quasi tutta l’Unione Europea che, dopo la Conferenza di Berlino i cui obbiettivi sono sostanzialmente falliti, ha messo in campo la missione navale a guida italiana Irini che per ora non pare adeguata per fermare il traffico di armi verso la Libia. Addirittura la missione potrebbe dispiegare i propri effetti quando le armi saranno ormai arrivate. Nel caso dell’Italia l’immobilità e mancanza di visione del dossier libico fa parte di una più ampia assenza di strategia geopolitica e incapacità anche tattica nella politica estera dovuta all’incapacità e scarsa conoscenza dei dossier di Conte e Di Maio.
L’immobilismo degli europei e dell’Italia in primis non ha impedito ad altri attori di innalzare il proprio ruolo da semplici comparse, o comunque ruoli di supporto, a quello di veri protagonisti. Prima di Berlino, nel novembre 2019, la Turchia e il suo leader Erdogan (che invece una agenda geopolitica e una visione della protezione e proiezione degli interessi strategici ed economici turchi le l’ha) avevano preso la decisione di impegnarsi direttamente a sostegno di Tripoli mettendo in campo copertura antiaerea, navi e droni, che hanno prima ridotto le superiorità aerea di Haftar e poi, con l’immissione di miliziani siriani mandati a Tripoli e Misurata (si parla di oltre 10.000 miliziani), hanno completato il lavoro, liberando prima gli avamposti di Haftar vicino alla Tunisia poi Al Watiya e infine Tarhuna.
Il fallimento della offensiva “lampo” di Haftar, sostenuta da Russia, Egitto ed Emirati, e il successo di “Vulcano di fuoco” di Serraj, sostenuto da Turchia e Qatar, ha reso la posizione odierna di Haftar molto più debole di quella dell’aprile del 2019, senza alcuna possibile o credibile prospettiva futura (considerata anche la sua età); nella sostanza si è creata una situazione di conflitto congelato. Condizione assai nota e applicata quando i russi sono – sempre indirettamente – presenti. Infatti, dopo gli accordi russo-turchi sulla Siria, Erdogan e Putin si sono nella sostanza spartiti la Libia: al primo la Tripolitania e al leader russo la Cirenaica e uno spazio di gioco per le milizie nel Fezzan. In questo quadro di congelamento va letta la mossa di Mosca di rischierare quattordici caccia e caccia-bombardieri, MiG e Sukhoi, senza insegne (i cosidetti little green planes), da Atrakhan via Siria alla base di Al Jufra in Tripolitania, ovvero costruire un deterrente credibile per LNA e alleati turchi e allo stesso tempo fornire copertura al ritiro dei mercenari russi di Wagner da Bani Walid.
E l’Italia? Come detto assenza totale, ma una finestra di opportunità si è aperta con la richiesta del GNA all’Italia di sminare l’aeroporto internazionale appena riconquistato e che dovrà essere ricostruito da un consorzio italiano. In un recente messaggio social Al Sarraj ha sottolineato che il suo governo ha “stretto con l’Italia un accordo per ricevere supporto tecnico e competenze per rimuovere mine e residuati bellici”. Già la scorsa settimana, nel corso di una conversazione telefonica, Sarraj aveva chiesto presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, “assistenza per il rilevamento e la rimozione” delle trappole esplosive piazzate dalle forze alleate al generale Haftar durante le ultime ritirate dal fronte.
La ricostruzione dell’aeroporto che fu sostanzialmente distrutto nel post Gheddafi dallo scontro delle milizie di Misurata e Zintan fu affidata al consorzio italiano “Aeneas” ne luglio del 2018. Gli eventi non permisero la partenza del progetto ma essa è finalmente possibile. Il progetto per la ricostruzione dell’aeroporto di Tripoli vale 79 milioni di euro e prevede la costruzione di due terminal: uno nazionale e uno internazionale, completi di tutti gli impianti aeroportuali per permettere l’apertura di questo aeroporto. Il consorzio italiano dovrebbe mettere a disposizione dei libici il “know how” e i materiali, mentre la manodopera sarà soprattutto libica, con gli italiani in un ruolo di supervisione.
È un piccolo progetto ma forse è l’ultima occasione per l’Italia di svolgere un ruolo in Libia.
Direttore per le Relazioni internazionali del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Deputato nelle legislature XV, XVI, XVII, XVIII e Sottosegretario agli Affari Esteri durante il Governo Conte I. Laureato in Economia (Università di Firenze), Master in Business Administration (Università Bocconi), dirigente di azienda bancaria.
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