di Luca Marcolivio
“Mi affido alla clemenza della Corte”. Con l’eventuale – e ormai probabile – approvazione del ddl Zan, questa espressione non sarà più una frase di rito ma avrà un significato letterale. Per un motivo molto semplice: il concetto di omofobia che si intende sanzionare non ha mai avuto una definizione scientifico-accademica e nemmeno giuridica. Si tratta di un vocabolo coniato per la prima volta negli anni ’60 dallo psicologo George Weinberg, con riferimento alla vera o presunta paura irrazionale verso le persone e le condotte omosessuali. Questa espressione, tuttavia, è rimasta confinata alla pamphlettistica, al giornalismo d’opinione e ai saggi indipendenti, non è mai stata annoverata tra i disturbi mentali, secondo i criteri stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Del resto la stessa etimologia della parola evoca una non precisata “paura dell’eguale” (dal greco ὁμός + ϕοβία) che potrebbe rimandare agli atteggiamenti più disparati e improbabili: bambini che hanno paura di altri bambini, anziani che hanno paura di altri anziani, ciclisti che hanno paura di altri ciclisti… Forse è anche dinnanzi a questa inconsistenza lessicale che, negli ultimi anni, i professionisti della neolingua sono ricorsi ad aggiornamenti quali “omotransfobia” o al più sottile e onnicomprensivo “omotransnegatività”. La sostanza, però, non cambia molto. Permanendo la totale vaghezza del termine, la responsabilità nel condannare o assolvere l’imputato per il reato di omofobia spetterà esclusivamente ai tribunali. Pertanto il giudice potrà condannare, giustamente, gli atti di bullismo ai danni di un giovane omosessuale, beffeggiato, deriso e percosso esclusivamente in virtù della sua inclinazione. Il magistrato, tuttavia, potrà anche condannare chiunque consideri la famiglia come esclusivamente fondata sul matrimonio tra uomo e donna. Siamo quindi molto vicini all’introduzione di un reato d’opinione, come sottolineato anche nel recente comunicato della Conferenza Episcopale Italiana, che rompendo il suo lungo e prudenziale silenzio sul tema, si è finalmente inserita nel dibattito, mettendo in guardia dal rischio di pregiudicare “l’espressione di una legittima opinione” e di “aprire a derive liberticide” nel confronti delle “scelte educative”, del “modo di pensare e di essere”, del “esercizio di critica e di dissenso”.
Come ha osservato Gianfranco Amato, presidente dei Giuristi per la Vita, nel corso di un’audizione alla Commissione Giustizia della Camera, in merito al ddl Zan, si rischia di violare uno dei principi dello Stato di diritto, “in virtù del quale il cittadino ha diritto di sapere quali sono le conseguenze del suo comportamento – soprattutto se si tratta di conseguenze di carattere penale – prima del processo e non al processo”. Al contrario, si andrebbe a legittimare un artificio tipico dei sistemi totalitari, come l’Unione Sovietica, dove veniva punito il “delitto di azione controrivoluzionaria”: definizione che voleva dire tutto e niente e che si prestava al totale arbitrio della magistratura. La stessa identica dinamica andrebbe a ripresentarsi anche in un Paese come l’Italia del 2020, dove la separazione dei poteri montesquieuana è geneticamente viziata non tanto dalla preminenza dell’esecutivo sul giudiziario, quanto dall’indottrinamento ideologico della magistratura stessa e dalle fortissime pressioni che quest’ultima riceve ad opera di un’ampia e variegata filiera di lobby.
E la Costituzione? “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, afferma l’articolo 3, destinato ad essere fatto letteralmente a pezzi, se venisse approvato il ddl Zan. Qualora venissero estesi i crimini d’odio “per motivi, razziali, nazionali, etnici e religiosi”, al “orientamento e all’identità sessuale”, ci troveremmo di fronte a un’implementazione del tutto inutile, in quanto l’articolo 61 del Codice Penale prevede aggravanti in caso di aggressione per “futili motivi”, quali sarebbero, in questo caso, le preferenze sessuali di una persona. Il risultato sarebbe allora la creazione di categoria privilegiata, per cui gli stessi reati ai danni di un’omosessuale o transessuale sarebbero soggetti a sanzioni più severe rispetto a quelli ai danni di un eterosessuale. Non è tutto: la critica delle condotte omosessuali e transessuali, nonché delle ideologie ad esse legate, potrebbe venire identificata come un’istigazione all’odio, secondo un’impostazione giuridico-filosofica che non distingue il reato dal reo. Una concezione, dunque, molto diversa da quella che ha caratterizzato gli ultimi due millenni di storia e che fonde in sé i principi cristiani con quelli del diritto romano.
Intanto i motori si stanno già scaldando e tra i sostenitori del ddl Zan c’è già chi mostra segnali di impazienza. Come il piddino Davide Bassani, consigliere municipale a Milano, che in un tweet ha subito auspicato “opportuni provvedimenti contro la #CEI, perfetta promotrice dell’omofobia stessa. Non saremo mai stanchi di denunciare la rappresentanza medievale di questa istituzione. Basta”, ha aggiunto. Se in fase di dibattito il clima è questo, quando il reato di omofobia sarà legge, cosa ci aspetta?
Saggista e giornalista professionista, è accreditato alla Sala Stampa della Santa Sede dal 2011. Direttore del webmagazine di informazione religiosa"Cristiani Today", collabora con "La Nuova Bussola Quotidiana"e"Pro Vita & Famiglia". Dal 2011 al 2017 è stato caporedattore dell’edizione italiana di "Zenit".
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