di Vincenzo Pacifici

La Cina rappresenta da parecchi anni direttamente o indirettamente il tema portante della politica internazionale, con letture assai di rado obiettive ed equilibrate e nella stragrande maggioranza dei casi condizionate e faziose.

Solo alcuni esempi sono sufficienti ed eloquenti. Uno spazio esiguo, addirittura molecolare ha avuto sulla stampa e quindi ancora di più presso l’opinione pubblica l’accusa lanciata dal cardinale salesiano Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, prima (ed ultima) personalità ecclesiastica ad accusare il dittatore cinese e quindi ovviamente l’intero paese della responsabilità mondiale del Covid-19. In effetti “assordanti” sono risultati i silenzi del Pontefice su Pechino. Paradossalmente dall’aprile scorso è stata lanciata l’edizione cinese della rivista dei gesuiti e nel prossimo mese di settembre sarà rinegoziato il “patto segreto”, titolo migliore non poteva essere scelto, tra le due nazioni, che ha già fatto registrare – ed era ora – nella Chiesa romana “segnali di malumore e diffidenza”.

Altro indizio della mai proclamata denunzia è rappresentato dall’editoriale dell’8 scorso di Angelo Panebianco: “Chiunque conoscesse i suoi polli sapeva, o quanto meno temeva sin dall’inizio, che l’Italia avrebbe tratto, dalla tragedia della pandemia, la lezione sbagliata. La lezione giusta sarebbe: in nulla vogliamo assomigliare alla Cina. Non solo – e questo è ovvio – non intendiamo importare l’autoritarismo che le permise di nascondere l’epidemia nella fase iniziale (quando ancora avrebbe potuto bloccarla)”.

I quotidiani a più ampia diffusione nazionale, innanzitutto il foglio di Urbano Cairo, perseguono una linea di condotta, chiusa all’accertamento delle immense responsabilità del drammatico e storico avvenimento. Non solo per l’epidemia ma anche sul caso di Hong Kong l’attenzione è fredda e non esplosiva e davvero non accanita, come accadrebbe se si trattasse di nazione anche remotamente riconducibile a destra.

L’Italia, con le sue maggioranze di centro-sinistra, da sempre ha privilegiato servili rapporti con la Cina. In un informato e documentato articolo, apparso nel II numero dell’anno 2004 della rivista “Le carte e la storia”, Paola Olla Brundu rammenta che nell’ottobre 1971, imperante il noto democratico Mao Zedong scomparso per “infarto” il 9 settembre 1976, fu perfezionato “un accordo piuttosto vantaggioso”, il primo di durata triennale sottoscritto dalla Repubblica Popolare Cinese con un Paese del Mec.

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La politica italiana ha guardato, grazie alla spinta confindustriale, con immutato favore, sorda di fronte alle caratteristiche liberticide della nazione, sempre e nonostante i camuffamenti comunista, tanto da incoronare Xi Jinping ”il personaggio dell’anno 2018”.

Da allora ad oggi l’asservimento si è appesantito (note sono le condizionanti simpatie dei grillini). Ultima prova il significativo titolo di un articolo dello scorso 9 giugno: Dal Brasile alla Turchia. Così i regimi mentono sulla letalità del virus. Nel testo, fornendoci un campione pieno del vincolante squilibrio politico, il presidente brasiliano è incoronato campione assoluto mentre in altra nota il sempiterno Sergio Romano (compirà 90 anno il prossimo 7 luglio) definisce il sempre respinto nazionalismo “legittimo” per la Cina.

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Laureato in Giurisprudenza e in Lettere, è stato fino al 2015 Professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato, tra l'altro, volumi su Crispi, sul problema dell'astensionismo e dell'assenteismo nelle consultazioni politiche del periodo unitario, sui consigli provinciali all'inizio del XIX secolo, sulle leggi elettorali del 1921 e del 1925. È presidente della Società tiburtina di storia e d'arte.