di Guglielmo Picchi

La Coalition for Prosperous America (CPA) ha recentemente annunciato la creazione di un nuovo indice denominato CRI (CPA Reshoring Index) elaborato dai suoi economisti Stephen L. Byers e Jeff Ferry, per misurare l’andamento dell’industria manifatturiera nazionale rispetto all’importazione di beni equivalenti. Dalla ricerca emerge che dopo 5 anni la costante perdita di produzione nazionale a favore dell’importazione di beni equivalenti negli Stati Uniti si è fermata. L’indice CRI è infatti risultato positivo nel 2019, raggiungendo un valore di 59, e questo in sintesi è dovuto ad una maggiore produzione nazionale dello 0,8% e la contestuale diminuzione di beni equivalenti importati dell’1%.

Si deve ricordare come il prodotto manifatturiero lordo americano sia pari a 6,3 trilioni di dollari e, di conseguenza, anche un piccolo cambiamento percentuale si trasformi in un significativo impatto per singole industrie o comparti, per l’occupazione e l’economia USA nel suo complesso.

Nella loro analisi Byers e Ferry ricordano che, sebbene esistano numerosi indicatori per misurare la salute dell’industria manifatturiera americana, l’indice CRI, da loro elaborato, si focalizzi sul successo o l’insuccesso del settore manifatturiero di guadagnare quote di mercato domestico. Questo è considerato un aspetto critico per il successo manifatturiero di un Paese, poiché il passato ci testimonia che ogni storia manifatturiera di successo è quella in cui si riesce a crescere e a dominare il mercato interno. La storia USA degli ultimi due decenni ci attesta invece come la perdita di una importante quota di manifatturiero in favore dell’importazione di beni equivalenti sia costata quasi cinque milioni di posti di lavoro. Se dunque i posti di lavoro sono stati la conseguenza diretta della sostituzione di manifattura con importazioni, quella indiretta è stata il crollo o declino economico di intere aree, minore reddito in termini reali, minore aspettativa di vita per certe fasce di popolazione, maggiore disuguaglianza, tensione sociale e polarizzazione politica.

Se tra il 2002 e il 2018 settore manifatturiero USA ha perso l’8% a favore dell’import, in quanto quest’ultimo è cresciuto dal 23 al 31%, nel 2019 questa tendenza si è ribaltata e l’aumento delle produzioni manifatturiere nazionali è stato dello 0,59%, con punte del 4% nell’elettronica di consumo, del 2,9% nei mobili, del 2% nel settore del legno (ex mobili) e una decrescita dello 0,19% nel food. È del tutto evidente che la performance economica del 2020 sarà fortemente condizionata dalla pandemia e quindi conviene guardare al 2021 e oltre per capire se il reshoring continuerà e l’indice CRI rimarrà o meno positivo. Se da un lato infatti gli ingenti investimenti in nuove tecnologie nel settore dell’acciaio fanno ben sperare, altri settori come quelli dell’elettronica di consumo si sono detti meno interessati a nuovi investimenti in siti produttivi.

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Se i dazi imposti dall’amministrazione Trump sono stati necessari per un reshoring index positivo nel 2019, non sono tuttavia sufficienti per sostenere il trend. Altre politiche devono essere messe in campo: tra queste Byers e Ferry individuano la svalutazione del dollaro per rendere l’industria più competitiva, sussidi del governo federale o di altre agenzie federali per supportare il Buy American e l’American manufacturing, incentivi fiscali per specifici settori industriali come quello farmaceutico che deve completamente ricostruire una propria capacità manifatturiera domestica.

Direttore per le Relazioni internazionali del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Deputato nelle legislature XV, XVI, XVII, XVIII e Sottosegretario agli Affari Esteri durante il Governo Conte I. Laureato in Economia (Università di Firenze), Master in Business Administration (Università Bocconi), dirigente di azienda bancaria.