di Daniele Scalea

Tucker Carlson Tonight è il programma televisivo d’approfondimento politico più seguito in America, con oltre 4 milioni di spettatori che lo seguono quotidianamente. Esso è particolarmente forte in quel segmento di pubblico che è il più corteggiato dai pubblicitari (25-55 anni). Eppure, decine e decine di aziende stanno rinunciando agli spazi pubblicitari durante lo show. Perché? Presto detto: Tucker Carlson (il conduttore che dà il nome al programma) è di destra. E pure politicamente scorretto. Lo è senza infingimenti e senza tentativi di smorzare le proprie posizioni per piacere al circo mediatico egemonizzato dai progressisti.

Qualcuno potrebbe chiedersi: ma che c’entra? Un’azienda non è un’associazione politica o di valori, ha una finalità commerciale e su quello dovrebbe basarsi nelle sue scelte pubblicitarie. Nulla di più falso. Chi pensasse ciò si sarebbe perso un’infinita sequela di spot in cui nemmeno si mostra o descrive il prodotto (in teoria) pubblicizzato, ma milioni sono spesi per propinare al pubblico qualche pippone moralistico su come la famiglia tradizionale sia sorpassata o su quanto sia desiderabile un mondo senza confini e nazioni. Ben ha detto il francese Eric Zemmour: i pubblicitari sono il braccio armato della rivoluzione, non si adeguano alla società ma lavorano attivamente per modificarla, poiché il capitalismo è rivoluzionario e come tale parteggia oggi per la Sinistra progressista. Piccolo inciso: anche Zemmour ha un programma televisivo, e siccome lui critica tanto l’immigrazione di massa quanto l’islamismo, la Ferrero ha deciso di boicottarlo togliendogli la sua pubblicità.

Torniamo dunque a Carlson. Egli è stato fatto oggetto di ricorrenti campagne di boicottaggio da parte di gruppi progressisti e, ad oggi, sarebbero più di cento le società che hanno ritirato la sponsorizzazione. L’ultima tornata è avvenuta in queste settimane, a causa delle critiche che ha rivolto a Black Lives Matter, non nascondendo le violenze perpetrate dai manifestanti d’estrema sinistra. Ad aderire al boicottaggio sono state Disney, T-mobile e Papa John’s, che si aggiungono a quanti già lo avevano fatto nei mesi e anni passati, come PepsiCo, Land Rover, Ancestry.com, Just for Men, tanto per citare solo quelle con cui un consumatore italiano potrebbe entrare in contatto.

Solitamente le campagne di boicottaggio sono lanciate da organizzazioni create proprio a questo fine, come Media Matters e Sleeping Giants. È sintomatico dell’intolleranza che permea la Sinistra il fatto che realtà simili siano state concepite e che riescano a raccogliere milioni di donazioni (e miliardi di encomi dal circo mediatico). Eppure, la loro logica è incredibilmente anti-democratica: laddove una persona normale, di fronte a un programma che non gli piace, cambierebbe canale, costoro si mobilitano per farlo chiudere. Essi hanno lo scopo di cancellare programmi, siti e giornali che non guardano e non leggono, per impedire anche agli altri (che vorrebbero) di farlo. Il loro bersaglio è il pluralismo. Così, ad esempio, il sito di destra populista Breitbart è stato preso di mira e diverse aziende hanno deciso di boicottarlo: Kellog’s, AT&T, BMW, Visa, Lenovo, HP, Vimeo, tra i tanti.

Il fatto è che, probabilmente, per molte di queste grandi multinazionali la campagna di sensibilizzazione è quasi superflua: più che a convincere i suoi manager serve a giustificare il boicottaggio agli occhi degli azionisti. Essendo, infatti, il progressismo prima di tutto l’ideologia odierna della classe manageriale e dell’élite socio-economica in genere, è ragionevole credere che i potentati economici siano coloro che muovono, non coloro che sono mossi. Oppure dobbiamo credere che, come direbbero gli anglofoni, “la coda stia agitando il cane” (the tail is wagging the dog)?

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Nell’un caso e nell’altro, è chiaro che questi boicottaggi e queste scelte commerciali, il cui fine esplicito è silenziare le voci non allineate al pensiero unico progressista, hanno successo prima di tutto perché da un lato c’è una minoranza organizzata che attacca, dall’altro una maggioranza che spesso rinuncia persino a difendersi. Se la maggioranza cominciasse a contrattaccare, chiarendo che non accetterà più i tentativi di estremisti e multinazionali di minare democrazia e libertà di espressione, le cose andrebbero diversamente. Quanto meno si renderebbe loro più difficile conculcare le nostre libertà. Nell’attesa che si organizzino, anche tra moderati e conservatori, dei gruppi equivalenti il cui fine sia quello di difendere, anziché soffocare, il pluralismo, ciascuno di noi può già incidere con le proprie scelte d’ogni giorno. Scegliendo di non acquistare più giocattoli o gadget con Topolino, di non andare più al cinema a vedere film della Marvel (fa parte della Disney), di mangiare cereali di marchi differenti dalla Kellog’s, di consumare creme alla nocciola che non siano Nutella, o di comprare pc non prodotti da HP o Lenovo, avremo, con un minimo sforzo, fatto qualcosa per difendere la nostra libertà ad esistere, pensare ed esprimerci come individui che non vogliono piegarsi al pensiero unico politicamente corretto. O, in alternativa, possiamo restarcene passivi ad aspettare che non esistano più voci libere che si contrappongano a quella dominante. A noi la scelta.

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Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di "Storia e dottrina del jihadismo" presso l'Università Marconi e di "Geopolitica del Medio Oriente" presso l'Università Cusano, dove in passato ha insegnato anche in merito all'estremismo islamico.

Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi; successivamente ha svolto il ruolo di capo della segreteria tecnica del Presidente della Delegazione parlamentare presso l'InCE (Iniziativa Centro-Europea).

Autore di vari libri, tra cui Immigrazione: le ragioni dei populisti, che è stato tradotto anche in ungherese.