di Marco Malaguti

Nella quarta parte della nostra genealogia del pensiero dominante, ci siamo occupati del momento esatto in cui tale pensiero ha, per la prima volta, visto la luce, ossia quel momento a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta in cui la vecchia tradizione del marxismo culturale di matrice francofortese è andata accompagnandosi e via via saldandosi alla cosiddetta corrente filosofica, letteraria ed artistica del postmodernismo.

Nonostante, come abbiamo rimarcato, l’Occidente potesse proclamarsi in una botte di ferro, le reazioni alla nascita di questo nuovo pensiero dominante non furono univoche, e tutt’ora esistono voci dissenzienti che criticano aspramente la svolta postmoderna del pensiero egualitario e “liberal”. In questo breve elaborato varrà la pena approfondire le critiche espresse dal filosofo Jürgen Habermas, a sua volta esponente della Scuola di Francoforte. La critica habermasiana, espressa nella raccolta di lezioni denominata Il discorso filosofico della modernità, assume un’importanza per i conservatori non tanto per il messaggio di allerta lanciato nei confronti del postmodernismo delineatosi, quanto perché offre, ancorché involontariamente, diversi spunti per uscire dall’impasse che vede le forze conservatrici sempre in difesa nei confronti delle avanguardie rivoluzionarie mondialiste ed egualitarie.

Nella raccolta di 12 lezioni, il filosofo tedesco mette infatti in guardia dalle eccessive radicalizzazioni dei toni anti-razionalistici dei suoi maestri Theodor Adorno e Max Horkheimer. Per la verità, entrambi avevano condannato la ragione strumentale e non la ragione tout-court, ma il dilagare del postmodernismo e delle sue istanze irrazionalistiche (capaci, tuttavia, di scatenare nelle piazze conseguenze molto concrete), impose una riflessione sul fatto di non essere, forse, andati troppo oltre.

Habermas concorda tanto con Nietzsche quanto con Hölderlin riguardo all’equazione filosofica tra la figura di Cristo e quella di Dioniso. Il dio ellenico dell’ebbrezza torna infatti in auge nei momenti in cui la cultura umana tende alla razionalizzazione: ciò avvenne nell’epoca della sofistica tanto quanto in quella dell’illuminismo. Nella “notte degli Dei”, nel mondo che ha perduto ogni incanto rimane solo l’ebbrezza, un’ebbrezza col potere di ringiovanire chi la vive in attesa del ritorno del Dio, esattamente come Cristo, morendo, ha lasciato dietro di sé il pane ed il vino, come “ricordo” da celebrarsi in attesa del suo ritorno. La condizione di “assenza degli Dei” sarebbe dunque ontologicamente occidentale, essendo del resto l’Occidente il continente della filosofia e del dubbio socratico, ma l’antidoto sarebbe, per il filone romantico che va da Hölderlin a Novalis, da Creuzer a Schelling, una sorta di dionisismo, pratica estetica ed estatica che costantemente contribuisce, per usare le parole di Habermas, “non già ad accomiatare, bensì a ringiovanire l’Occidente” (J. HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità, pag. 95, ed. Laterza 2020).

Tutto questo però, a differenza della visione dei romantici e di Nietzsche, nonché dei postmoderni, per Habermas rappresenta un pericolo. Tale modo di pensare apre infatti la strada ad un mondo tutt’altro che egualitario e di pace. Per Habermas la “Dialettica dell’Illuminismo” dei suoi due maestri non rendeva giustizia a tutti quei valori di pace ed eguaglianza tutelati dal razionalismo borghese. In un mondo sgomberato dalla ragione, del resto, a cosa si sarebbe potuto fare appello contro quei nietzscheani che la lezione del nichilismo l’avevano appresa fin troppo bene anteponendo la loro volontà di potenza a qualsiasi altra cosa? In questo senso, i postmoderni egualitari giocavano ad un gioco molto pericoloso: il dionisismo usato come grimaldello per demolire la ragione strumentale borghese e la mentalità calcolante del capitalismo poteva riaprire pericolosamente le porte a quei nazionalismi romantici che erano appena stati sconfitti.

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Ne La nascita della tragedia, Nietzsche non traccia alcun giudizio di valore, e crudeltà e dolore sono considerati alla stessa stregua del piacere e del bene; il male ed il bene sono entrambi “proiezioni di uno spirito creatore che si abbandona senza scrupoli allo spensierato godimento per la potenza e l’arbitrarietà delle sue creazioni fantastiche” (Ivi, pag. 98). Come già foscamente intuito da Sartre, non è detto che tale disinvoltura rimanga per sempre un patrimonio degli adepti del pensiero critico e dell’egualitarismo. Se il mondo, per usare le parole di Habermas, si presenta nichilisticamente come “un tessuto di contraffazioni e interpretazioni alla cui base non vi è né un’intenzione né un testo”, l’unico strumento in grado di costituire una misura unificante di ciò che esiste rimane la mera potenza. Decisamente una prospettiva lontana da quella auspicata dai critici della ragione strumentale. In questa prospettiva è la potenza che determina il senso, e non l’opposto, ed in tale quadro realismo e postmodernismo si sintetizzano in una maniera inaspettata e portentosa. La potenza si costruisce quindi in base ai diversi sensi eccitati dall’esperienza artistica, dall’ebbrezza, e la volontà di potenza è anzitutto animata da un nucleo estetico, una volontà di apparenza.

Habermas in tal senso notò con preoccupazione la concordanza tra due pensatori lontanissimi, politicamente e temporalmente come Friedrich Schiller ed Herbert Marcuse. L’arte come fattore emancipatore rivoluzionario accomunava tanto i contestatori del ’68 quanto i giovani studenti romantici e nazionalisti dell’Ottocento tedesco. Da quel mondo, che rifiutava una certa idea di modernità, Marcuse ed il Sessantotto avevano pericolosamente riesumato la concezione secondo la quale “la fiducia repressiva nel mondo oggettuale dato, deve venire dissolta” (H. MARCUSE, Konterrevolution und Revolte, pag. 140, Frankfurt am Main, 1973). Lo scenario che per Habermas si apre è dunque pericolosissimo: è infatti solo questione di tempo, ed i neoconservatori (nel pensiero di Jürgen Habermas il termine neoconservatore va inteso come sinonimo sia della destra conservatrice populista sia dei postmoderni estetizzanti e nietzscheani; non va quindi inteso come sinonimo dei più noti neocon statunitensi) scopriranno la potenzialità di questa visione filosofica, rottamando il principio, certamente strumentale, dell’utile e dell’interesse, che in qualche modo però costituisce, come in Adorno ed Horkheimer, l’ultimo baluardo del liberalismo contro ai suoi oppositori.

Marco Malaguti
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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.