di Stefano Beccardi
Sembra essere passata in sordina la sentenza (n. 18125 del 12 giugno 2020) con cui la Suprema Corte di Cassazione ha risolto definitivamente il procedimento noto alle cronache come “Mafia capitale”. Se è vero che l’attenzione mediatica delle ultime settimane è stata pressoché monopolizzata dai fatti legati all’omicidio Floyd e alle rivolte Black lives matter, ancor più che dai colpi di coda dell’epidemia, di certo l’esito “urticante” non ha contribuito a far emergere la notizia dalla marginalità.
Difatti, la sentenza di legittimità – ribaltando la decisione di appello e confermando quanto era già stato rilevato in primo grado – ha negato alla radice la natura mafiosa del sodalizio che girava intorno alle figure di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, nonché il “metodo mafioso” contestato ad alcuni degli imputati. In questo modo, è stata peraltro smentita una fiorente narrazione (che tra l’altro ha ben fruttato nelle edicole e sul piccolo schermo) che, forse, ambiva ad estendere (strumentalmente e superficialmente, ad opinione di chi scrive) il perimetro di punibilità del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. per “adeguarlo” alle “nuove mafie” (a favore, però, più degli autori di best-seller che della Giustizia).
In breve, la Corte di Cassazione ha affermato l’esistenza di due distinti sodalizi criminali: uno dedito a reati di estorsione, l’altro impegnato in attività di corruzione nei confronti di funzionari e politici operanti nella pubblica amministrazione capitolina. Né forza intimidatrice, né clima di timorosa omertà però, ma un fitto sottobosco di intrecci, scambi, imbarazzati e complici silenzi che generava una situazione tanto diffusa da farla apparire tragicamente “naturale” nella vita, politica e quotidiana, romana.
Il merito principale della sentenza è quella di aver affermato… un’ovvietà, volendo basarsi esclusivamente sui fatti già trapelati a conclusione delle indagini: l’esistenza di “un fenomeno di collusione generalizzata… il cui fulcro era costituito dall’associazione criminosa che gestiva gli interessi delle cooperative di Buzzi attraverso meccanismi di spartizione nella gestione degli appalti […] un “sistema” gravemente inquinato, non dalla paura, ma dal mercimonio della pubblica funzione”.
A distanza di tempo si trovano così conferme di sospetti sin da subito emersi, che affondavano nel ruolo preminente assegnato nella vicenda alla figura di Carminati, il “Nero”, rispetto a quello di Buzzi. Del resto, Carminati aveva il physique du rôle per la trama perfetta: un uomo “senza amici, solo camerati” che “grazie al terrore” era divenuto “l’ultimo re di Roma”, come lo descriveva “L’Espresso” già nel 2012.
Il sempreverde “pericolo fascista”, del resto, era ancora una volta lo spettro migliore da agitare per coprire alcuni dettagli spinosi. Invero, Buzzi non solo era un uomo dichiaratamente “di sinistra”, non solo gestiva un consorzio di cooperative sociali affiliato a Legacoop, ma – nel pieno degli anni degli sbarchi di “migranti” nel Mediterraneo – gestiva nove centri d’accoglienza.
La descrizione mafioso-fascista della rete criminale creata da Carminati e Buzzi tornava quindi utile per diversi scopi sottaciuti: spostare l’attenzione dal discorso migratorio a quello del contrasto al malaffare e alla criminalità organizzata; ridimensionare l’appartenenza politica di uno dei due deus ex machina nonché di tanti altri soggetti, politici e funzionari, implicati negli episodi corruttivi (ad ogni modo, bipartisan); il tentativo di dimostrare che, laddove non arrivava il sistema “legale” delle cooperative e dell’associazionismo pro-accoglienza, allungava i propri tentacoli la piovra mafioso-criminale, in un contesto politico generale in cui era un tabù mettere in discussione l’idea per cui le migrazioni fossero un “fenomeno incontrollabile e inevitabile”.
Insomma, sollevare il mito della “Mafia capitale” intorno a un sistema di cooperative ormai esposto alla tormenta mediatica e giudiziaria consentiva una rapida presa di distanze e condanna dei personaggi coinvolti senza però dover prendere le distanze dai presupposti di fondo che animavano l’intero sistema della “accoglienza”. Il resto è cronaca e inchieste che si attivano e protraggono diffusamente ad anni di distanza, quando ormai rendite di posizione – economica e politica – si sono consolidate.
A proposito di questa commistione ideologico-affaristica, in un arguto inciso della sentenza gli Ermellini hanno sottolineato: “può dirsi che una parte del “palazzo” non è stata “conquistata” dall’esterno, dalla criminalità mafiosa, ma si è consapevolmente “consegnata” agli interessi del gruppo che faceva capo a Buzzi e Carminati; un gruppo criminale che ha trovato terreno fertile da coltivare”.
Una considerazione che avrebbe potuto ispirare una “prima pagina” e riaprire una discussione sulla gestione migratoria degli ultimi anni, ma che ha trovato concomitante lo strillare di altri mantra progressisti per non destare troppa attenzione.
Avvocato, ha un Master in Consulenza politica e marketing elettorale (Eidos).
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