di Davide Lanfranco

Della vita del drammaturgo romano Publilio Siro (Publilius Syrus, I secolo a.C.) si conosce poco, se non quanto riportato da Macrobio nei Saturnalia. Rimangono però di lui le Sententie, che poi non sono altro che una raccolta di circa settecento massime e sentenze morali. Tra queste, una mi è tornata in mente più volte negli ultimi giorni : “Nocens precatur, innocens irascitur” (“i colpevoli pregano, gli innocenti si adirano”). Mi è venuta in mente, in particolare, vedendo le immagini dei giovani, dei deputati, degli uomini in divisa e dei presidenti che, a partire dagli Stati Uniti al Canada fino alla Vecchia Europa, dopo le prime manifestazioni scatenate negli U.S.A. dalla morte dell’afroamericano di Minneapolis George Floyd, si sono inginocchiati pubblicamente, come segno di riconoscimento politico ai protestanti e come forma di scusa collettiva del mondo “bianco occidentale” verso i “neri”.

Da quello che ho avuto modo di capire, alcuni lo hanno fatto laicamente in silenzio, altri anche pregando (sicuramente verso qualche Dio ma non saprei dire quale, perché non ho intravisto simboli religiosi; essendo un po’ retrogrado e limitato do per scontato che chi prega, lo faccia rivolgendosi ad un entità ultraterrena da identificarsi in un qualche Dio). Verosimilmente pregavano per l’anima del defunto o, forse, per la loro anima colpevole di un qualche peccato collettivo. Al netto delle misere operazioni di “paraculaggine mediatica” poste in essere da tutti quei soggetti che vivendo di immagine e notorietà sposano qualsiasi causa per avere visibilità, la questione andrebbe presa sul serio.

Personalmente faccio parte di quelli che hanno scelto che non si inginocchieranno né pregheranno, non solo perché da agnostico non credo in un Dio e quindi non posso pregarlo (non è che puoi credere o non credere ad intermittenza), ma anche perché non mi sento colpevole di un beneamato nulla (se non le mancanze verso chi mi sta vicino, che siano i miei genitori o la mia consorte), tanto meno di colpe collettive; ritengo che la colpevolizzazione collettiva sia un’idiozia tale e quale al fenomeno dell’assoluzione collettiva.

Non sono colpevole perché il fatto di essere bianco, maschio ed occidentale è frutto di puro caso e non di scelta e perché questo, in ogni caso, non fa automaticamente di me un correo dello schiavismo compiuto nei confronti delle popolazioni africane da parte dei nordamericani due o tre secoli fa, più di quanto possa essere correo oggi dello schiavismo praticato in Pakistan o in Afghanistan da qualche gruppo etnico nei confronti dei membri di altra etnia. Così come essere maschio non mi costringe a sentirmi automaticamente colpevole della violenza sulle donne, perché alcuni fetidi depravati, anche nel nostro Paese, continuano a considerare una donna loro proprietà privata e reagiscono agli abbandoni con la violenza. Non sono colpevole perché le imprese del mondo occidentale sfruttano risorse e lavoratori del terzo o quarto mondo, più di quanto possa esserlo perché la meravigliosa e progressiva Cina si sta accaparrando, nel silenzio quasi totale della stampa, le fonti di petrolio, ferro, rame e zinco in Nigeria, Zambia ed Angola, fregandosene di creare migliaia di poveri e disperati, che poi fuggono sui barconi in Occidente.

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Per questo non mi inginocchio e prego, ma mi infurio. Mi infurio soprattutto con questa pazzia della colpevolizzazione collettiva che è la malattia infantile dell’Occidente. Mi infurio nel vedere che politicanti miseri e ciechi, per seguire dubbi umori dell’opinione pubblica assecondano, anticipandoli, i barbari che abbattono statue e simboli della nostra storia e che si sono autoproclamati “guardiani della verità”. Tutto questo chiaramente sperando che invece quel gesto, l’inginocchiarsi, non rappresenti qualcosa di ben peggiore, la volontà per esempio di sottomissione ad un padrone. Perché in questa ottica avrebbe ragione, più che Publilio Siro, Franz Kafka quando, parlando dell’ossessione amorosa insana diceva che ci si casca, perché “spesso è più sicuro essere in catene che liberi”.

Forse in Europa ed in Occidente si sta solo cercando un nuovo padrone e allora la mente non può non tornare a quel folletto pazzo e visionario della letteratura contemporanea che è Michel Houellebecq ed alle pagine del suo Soumission: “È la sottomissione, l’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta”.

Non è quindi una richiesta di perdono o una preghiera quella vista, ma un’ inconscia richiesta di sottomissione? Si cerca un padrone nuovo perché i padroni di un tempo, democrazia liberale e religione cristiana, non bastano più? A chi ci si sta sottomettendo? A chi si sta offrendo il capo nudo? Ai ricchi e tecnologici mandarini rossi? Alle dieci, venti, mille sfumature della mezzaluna? Agli imperatori del web? A popoli più giovani e vigorosi? Tranquilli, quando uno si offre come schiavo e ripudia la propria storia e la propria identità, un padrone prima o poi arriva e saremo tutti più pacifici e sereni.
O no?

Laureato in Sociologia (Università La Sapienza di Roma) con Master in Economia e Finanza degli Intermediari Finanziari (Università LUISS). Da vent’anni lavora per lo Stato Italiano nel settore delle Forze di Polizia.