Le folle riottose che nel Nuovo Mondo abbattono i monumenti e si scagliano contro i simboli della storia prevaricatrice dell’Occidente non sono né un fenomeno isolato né un qualcosa che i conservatori europei possano evitare di considerare.

Stante lo scarso successo nel passare l’Atlantico, con qualche sporadico caso in Francia, Inghilterra e Germania, l’Europa sembra essere uscita con danni minimi da questa guerra delle statue. Tuttavia, il punto di forza di questo genere di movimenti sta nella cieca fede nel progresso che li rende continuamente in grado di rinnovare le proprie offensive culturali, in maniera tale che ogni volta, spenti i fuochi della protesta, le forze conservatrici abbiano fatto qualche passo indietro, le loro uno in avanti. I feroci disordini americani fungeranno un domani da precedente di legittimità per chiunque voglia portare la battaglia del senso di colpa e del rifiuto di sé stessi nei paesi europei. La postura costantemente offensiva dei liberals fa in modo che ogni genere di battaglia, per quanto assurda e scarsamente recepita dalla popolazione, getti i semi per la vittoria del futuro grazie ad un’industria culturale costantemente all’opera per insufflare nella società i messaggi necessari – il fenomeno cd. della Finestra di Overton. In questo senso, per opporsi a forze dal carattere così aggressivo, giocare sulla difensiva vuol dire rimandare un’inevitabile sconfitta.

Prima di suggerire un indirizzo per una controffensiva culturale è bene evidenziare che l’Occidente vive una situazione paradossale. In condizioni normali qualsiasi collettività umana elabora dei miti, attraverso un’accurata selezione storica, che possano giustificare il suo presente. Le ragioni sono di carattere estremamente pratico: un mito fondante spinge le collettività a imporsi sacrifici per perseguire l’interesse nazionale, giustifica le sofferenze della competizione internazionale alla luce di una missione storica secolare. A proiettare le navi turche sulle coste delle isole greche negli ultimi giorni non è folle brama di potere ma necessità di carattere strategico; a riempire quelle navi di giovani turchi disposti a morire per Istanbul, tuttavia, è il mito di una nuova giovinezza dell’Impero ottomano, rinato dopo un colpo di spugna su più di mezzo secolo di kemalismo. Dal punto di vista della Turchia tutto ciò è estremamente razionale: la competizione per l’egemonia segna gli obiettivi internazionali, la narrativa mobilitante fornisce il carburante. Dalla nuova Russia imperiale al rinato Impero Celeste, chi si vuole fare grande e potente da sempre elabora mitografie che sposino la propria volontà egemonica.

Di contro l’Occidente sembra preda di una malattia autoimmune che lo porta ad elaborare quelli che Faye definiva anti-valori, che danno vita ad anti-narrazioni. Piuttosto che appoggiarsi ad un passato vittorioso, selezionandone le punte luminose, gli uomini occidentali sono preda di un senso di colpa che li porta a cospargersi il capo di cenere per le sofferenze inflitte agli altri pacifici popoli della terra, strappati a una condizione utopica dalla brama di potere dell’uomo bianco. Secoli di pace hanno prodotto una “sindrome della riserva naturale” che ha portato a dimenticare che se in Occidente si è sviluppata una cultura dei diritti e della tolleranza è solo grazie allo strapotere militare dei paesi del nord del mondo, in grado di allontanare le frontiere dei conflitti a migliaia di chilometri da casa. Il lusso del costruttivismo progressista è un qualcosa che una collettività si può permettere solo se non si scorgono minacce all’orizzonte, situazione quantomai lontana dal nostro presente.

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È in questo senso che bisogna considerare la nuova iconoclastia che vorrebbe gli uomini occidentali costantemente immersi nella liturgia del mea culpa. Non basta negare le tesi portate avanti dalle forze progressiste, ma è necessario elaborare un nuovo paradigma culturale che ci aiuti a sopravvivere. Passare all’offensiva significa oggi selezionare gli aspetti del passato più idonei per giustificare un presente tenebroso che minaccia la nostra sicurezza. Insomma, non limitarsi a difendere la storia, a contestualizzarla riconoscendo comunque una buona dose di colpe, ma rivendicare il proprio passato come motivo d’orgoglio. Si abbia chiaro che in un mondo di attori bellicosi e prevaricatori, gli Stati occidentali si imposero come prevaricatori migliori e si consideri tale precedente storico né come un male necessario né come una macchia sulla coscienza, ma con l’orgoglio dell’aver vinto la più grande delle competizioni.

Fino a che, prima di parlare, si penserà di mettere le mani avanti su «quello che hanno fatto l’imperialismo spagnolo contro gli indigeni del sud America e la cavalleria yankee contro i pellirossa», si danzerà al ritmo di una musica scritta da altri, che imprime ai discorsi dei conservatori una postura difensiva sprovvista della carica feroce e spregiudicata delle forze liberal. Da una parte le avanguardie progressiste abbattono i simboli del nemico, monopolizzano le agende universitarie, fanno in modo che professionisti dalle idee differenti vedano le proprie carriere stroncate da manovre lobbistiche (si vedano le recenti dimissioni forzate di Stephen Hsu), diffondono gli indirizzi di casa di intellettuali avversari come recentemente accaduto al presentatore Tucker Carlson. Contestualmente l’industria culturale spinge per la destrutturazione completa del senso di identità, attivisti neri come Ibram Kendy ci insegnano a «combattere il razzismo, specialmente dove non ci rendiamo conto che esista» (curioso titolo di un articolo del “NY Times” del 2019), leggi liberticide come la Zan-Scalfarotto minacciano di chiudere la bocca a migliaia di persone e orientare in senso dottrinario l’educazione delle nuove generazioni.

Di fronte a questa valanga di zelo para-religioso non può esistere una “Buona Destra” scelta da sinistra, ma è necessario formulare elaborazioni intellettuali nuove ed aggressive che possano invertire la tendenza piuttosto che rallentarla.

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Studia la comunicazione politica, la narrazione, la capacità di creare miti e simboli per comprendere fino a che punto questo velo sia in grado di mascherare la realtà dei fatti. Proviene dal mondo del giornalismo, incubatore assieme all'università dei grandi miti post-moderni.