di Luca Ruggeri

L’accordo raggiunto il 21 luglio tra i leader della UE, dopo una lunga maratona negoziale, è stato da più parti definito storico e salutato da molti in Italia come un grande successo.

A sostegno di tale entusiasmo alcune considerazioni, parzialmente condivisibili. Per la prima volta il bilancio della UE verrà utilizzato in modo anticiclico quale strumento per stabilizzare la crisi, anche se si è resa necessaria una crisi di grande rilevanza per arrivare ad una conclusione in sé ovvia.

Il Recovery Fund viene visto da alcuni come uno strumento permanente per promuovere la convergenza tra le diverse economie europee ed un primo passo verso un bilancio federale stante la mutualizzazione del debito; peraltro è lecito dubitarne vista l’animosità che ha caratterizzato la trattativa in un momento oggettivamente tragico per l’Europa.

La notevole massa di titoli che verranno emessi dalla Commissione in esecuzione dell’iniziativa europea potrà avvantaggiarsi di un rating molto favorevole, con un effetto positivo sui costi finanziari soprattutto per i paesi con rating meno performanti quali l’Italia. Il nuovo debito potrebbe inoltre costituire una interessante forma di investimento sicuro, probabilmente a scapito dei bund tedeschi, e rafforzare il ruolo dell’euro.

Aldilà dell’entusiasmo per la conclusione di una dura trattativa e delle considerazioni sopra esposte è lecito porsi qualche semplice domanda per valutare l’intero accordo.

Quanto?

Le dimensioni dell’intervento concordato appaiono enormi: ben 1.824 miliardi se si somma il Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) ed il fondo Next Generation EU (NGEU); in adempimento di quest’ultimo la Commissione potrà contrarre prestiti sul mercato per un importo massimo di 750 miliardi dei quali 360 quali prestiti e 390 da distribuirsi sotto forma di sovvenzioni (importo comunque inferiore al limite minimo di 400 inizialmente indicato).

In realtà l’intervento per fronteggiare la crisi del coronavirus (750 miliardi) deve essere valutato in considerazione dell’impegno pluriennale e del fatto che riguarda l’intera Europa; se confrontato, ad esempio, con quanto mobilitato dagli USA la valutazione diviene assai meno positiva. Non casualmente la Presidente della BCE, forte del robusto sostegno offerto dalla BCE all’economia, ha sintetizzato: “Bene, ma si poteva fare meglio”.

L’entusiasmo palesato in Italia, sotto questo profilo, risulta difficile da giustificare. Il nostro Paese, secondo le prime valutazioni, dovrebbe vedere un vantaggio, rispetto a quanto dovrà versare, quantificato in 25 miliardi, troppo poco per affrontare questa crisi.

Quando?

Lo Strumento per la Ripresa e la Resilienza (Recovery and Resilience Facility – RRF), il principale strumento di Next Generation con una dotazione di 672,5 miliardi, secondo l’accordo vedrà il 70% delle sovvenzioni impegnate nel 2021/2022 ed il 30% entro la fine del 2023. In altri termini le risorse perverranno non prima dell’anno prossimo, peraltro nella migliore delle ipotesi data la complessità giuridica dell’accordo e la necessità di predisporre ed approvare i piani degli investimenti. L’autunno dovrà essere affrontato senza poter contare su questa tipologia di intervento che sul breve periodo fornirà quindi ben poco supporto alla nostra economia. Considerazioni che motivano il giudizio di alcuni analisti che salutano il nuovo progetto europeo come uno strumento di integrazione sul medio periodo, piuttosto che come effettiva reazione alla crisi coronavirus. Non è infatti casuale che venga ora richiesto da parte di alcuni l’utilizzo del MES per poter disporre di risorse in tempi auspicabilmente più brevi.

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Come?

Tra gli aspetti più sottolineati della trattativa vanno annoverate le condizionalità ed il cosidetto potere di veto di uno Stato nei confronti del piano degli investimenti di un altro Stato.

Circa il primo aspetto il testo dell’accordo è assai esplicito, indicando che “i piani per la ripresa e la resilienza sono valutati dalla Commissione … nella valutazione il punteggio più alto deve essere ottenuto per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per paese”; quindi pacificamente il primo criterio di valutazione del piano di investimenti proposto dal nostro Paese sarà la rispondenza alle indicazioni europee.

La valutazione dei piani per la ripresa e la resilienza “deve essere approvata dal Consiglio, a maggioranza qualificata su proposta della Commissione”; inoltre “la valutazione positiva delle richieste di pagamento sarà subordinata al soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali”.

Da ultimo, come richiesto dai “frugali”, l’accordo prevede “qualora, in via eccezionale, uno o più Stati membri ritengano che vi siano gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali (di un altro Stato), possono chiedere che il presidente del Consiglio europeo rinvii la questione al successivo Consiglio europeo”. Si tratta del cosidetto “freno di emergenza” che attribuisce la possibilità di rinviare l’esame del comportamento di un altro Stato di fronte al Consiglio europeo, quindi, di fatto, in un ambito dove verranno fatti pesare i rapporti di forza tra Stati.

La mera lettura dell’accordo fa comprendere che l’idea di poter disporre con ampio grado di libertà nell’utilizzo delle somme previste, magari perché indicate come sovvenzioni, è semplicemente distante dalla realtà. È facile prevedere che ci sarà un aspro confronto, al quale sarebbe opportuno prepararsi con un piano di investimenti caratterizzato da un minimo di razionalità e dal rispetto di quanto previsto dall’accordo (pensiamo ad esempio al vincolo del 30% per l’azione per il clima).

In estrema sintesi l’accordo del 21 luglio è rilevante primariamente sotto l’aspetto politico e simbolico (si pensi alla mutualizzazione del debito), ma di limitato impatto sul ciclo dell’economia e sull’Italia, tardivo nonché munito di una governance discutibile.

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Ricercatore senior del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Economia, ha lavorato per oltre venti anni presso una grande banca italiana ed attualmente svolge la propria attività quale direttore generale presso un investitore istituzionale.