di Davide Lanfranco
Da appartenente alle Forze dell’Ordine mi sono ritrovato arrabbiato e schifato nel leggere le cronache giudiziarie che descrivevano l’inchiesta Odysseus che ha portato all’arresto dei carabinieri della Stazione Piacenza-Levante.
Non indignato, perché l’indignazione è un sentimento perbenista e piccolo-borghese (attualmente nella versione progressista) che non mi appartiene. In genere trovo l’indignazione molto ipocrita ed ho l’impressione che serva esclusivamente a “pulirsi la coscienza”. Preferisco essere arrabbiato, perché la rabbia spinge all’azione e a modificare lo status quo.
Mi sono ritrovato arrabbiato anche perché, inevitabilmente, i cattivi comportamenti dei pochi possono mettere in ombra i buoni comportamenti dei molti. Mi sono ritrovato arrabbiato perché quei fatti, al di là della definizione processuale, alimentano i pregiudizi di quella parte di società che non vede l’ora di dipingere gli appartenenti alle Forze dell’Ordine come un branco di energumeni nazistoidi al soldo dei poteri forti e conniventi con la criminalità. Mi sono trovato arrabbiato perché so bene che, come diceva, un mio comandante ammiratore di Lao Tze tanti anni orsono, “fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”.
Però, in tutta sincerità, non accetto nemmeno le difese corporative secondo le quali “non si può infangare un istituzione intera per colpa di alcune mele marce”. Penso che la teoria delle “mele marce” sia irricevibile in quanto puzza di auto-assoluzione. Non l’accetto per nessuna categoria e quindi nemmeno per quella di cui faccio parte. Non l’ho considerata valida per la brutta vicenda che ha visto coinvolti i vertici dell’Associazione Nazionale Magistrati e che è stata scoperchiata dall’inchiesta di Perugia; identico discorso vale per le Forze dell’Ordine.
Sappiamo bene tutti che le responsabilità penali sono personali. I carabinieri arrestati a Piacenza, se confermate le accuse contro di loro (valgono pure per loro i principi dello stato di diritto e non escludo che almeno alcune posizioni possano “alleggerirsi”), pagheranno adeguatamente, ne potete stare certi. Non si può, del resto, nemmeno negare che, quando certi episodi si verificano troppo spesso e sono reiterati nel tempo, non ce la si può cavare con la storia delle “mele marce”. È evidente che in questi casi qualcosa non funziona nel sistema di controllo o nei rapporti gerarchici ( si chiama in gergo catena di comando).
Ho l’impressione che, come per il contesto emerso dal caso Cucchi, alcune disattenzioni e reticenze delle superiori gerarchie, che hanno permesso che si realizzassero comportamenti sciagurati da parte del personale sottoposto, siano da ricollegarsi, più che a coinvolgimenti diretti, al sistema di valutazione dei risultati di servizio ed alla progressione delle carriere. Posso immaginare che qualche ufficiale, in nome dei famigerati “risultati di servizio” a tutti i costi da cui dipende la sua carriera e la qualità della sua vita familiare ( in alcune forze di polizia i dirigenti fanno carriera in base al numero di arresti o verbali redatti dai loro sottoposti, a prescindere dalla consistenza delle contestazioni o dai metodi utilizzati), probabilmente, tolleri che alcuni “operatori siano più uguali degli altri” (col rischio che un graduato possa sentirsi al “vertice di una piramide”).
Da questo punto di vista sarebbe il caso di “approfittare” di certi inciampi per rivedere il metodo di valutazione dei risultati di servizio, oltre che il sistema delle carriere dei dirigenti-ufficiali. Purtroppo la legge sui sindacati militari che, dopo due anni dalla sentenza nr. 120 del 2018 della Corte Costituzionale, sta per essere partorita dalle Camere (all’unanimità, fatto già sospetto) mi porta a credere che invece non sarà così (ricordiamo che ben due forze di polizia su tre hanno carattere militare). La norma in argomento è a mio avviso un pessimo compromesso al ribasso, teso più che altro a non alimentare le paure degli Stati Maggiori Militari. Per inciso, io non sono d’accordo sulla proposta approvanda ma da homus totus politicus (nella versione cossighiana) non posso non complimentarmi con i vertici militari per questa loro vittoria che ha “neutralizzato” la sentenza sul diritto d’associazione sindacale dei militari; dimostrazione che la politica italiana è pure in questo “dipendente dai tecnici”.
Purtroppo devo constatare che, insieme ad una classe politica poco coraggiosa e competente nelle materie inerenti le forze dell’ordine (fatto preoccupante), il mondo del giornalismo, che gli dovrebbe “fare le pulci”, non si sia dimostrato molto da meglio. Ho provato, forzandomi, ad ascoltare alcune trasmissioni televisive che trattavano la questione dei carabinieri arrestati. Ne ho pure vista una con la presenza di Ilaria Cucchi (ho rispetto per la battaglia da lei fatta, ma non credo sia per forza e sempre utile il suo parere, quando un carabiniere commette un reato). Mi sono costretto a seguire tutte le (in)evitabili disquisizioni sociologiche sulla natura psichica di chi si arruola nelle forze dell’ordine e sui soggetti deboli vittime degli abusi polizieschi (sempre e solo omosessuali, transgender, immigrati, donne. Quindi per chi è maschio eterosessuale e italiano nessun problema?). Speravo si arrivasse alla fine a parlare del sistema di gestione del personale e della valutazione dei risultati di servizio. Temi invece appena accennati.
Il discorso, in conclusione, verteva sempre sui presunti “mandanti morali” ovvero quei politici (in genere aderenti alla destra sovranista e soprattutto Salvini) che aizzerebbero la parte più violenta o suggestionabile della società contro i deboli di cui sopra. Secondo questa originale visone gli appartenenti alle forze dell’ordine sarebbero, per natura, un po’ più scemi degli altri italiani e predisposti a farsi alimentare in cattiveria dal truce di turno (quindi non è che sono maledetti bastardi che violano il loro giuramento per stupidità o tornaconto personale) per realizzare un progetto di pulizia etnico-politica a mezzo “fermi illegittimi”. Le soluzioni? Verificare costantemente le opinioni politiche che le “guardie” esprimono sui social network (non è uno scherzo, è stato proposto)? Sospendere dal servizio chi non si inginocchia in sostegno a Black Lives Matter? All’atto dell’arruolamento vogliamo proporre test d’amore e tolleranza da tenersi durante il Gay Pride?
Proprio i discorsi sentiti mi hanno rivelato quella che posso definire, in questa circostanza, l’unica verità assodata. A lor signori non frega nulla di vittime e carnefici. Non interessa come funzionano e se funzionano in modo corretto le Forze dell’Ordine. A loro interessa solo l’eterna guerruccia ideologica a base di luoghi comuni e frasi fatte: “Io sto con l’Arma che non si discute per quattro mele marce” “Ci sono troppi fascisti nelle forze dell’ordine” “È colpa del clima alimentato dai sovranisti”. A molti andrà bene questo livello di discussione ma a me no. Io, come direbbe uno che se ne intendeva di questioni dell’Interno, “a questo gioco al massacro non ci sto”.
Laureato in Sociologia (Università La Sapienza di Roma) con Master in Economia e Finanza degli Intermediari Finanziari (Università LUISS). Da vent’anni lavora per lo Stato Italiano nel settore delle Forze di Polizia.
Ottima e lucida analisi che condivido in toto. Centrato in pieno il nocciolo della questione. Da cittadino cresciuto con l’educazione civica a scuola ed il rispetto dello Stato, mi permetto di aggiungere che questa è una delle tante situazioni (che sono anche citate nell’articolo) frutto dell’assenza dello Stato. Lo scollegamento tra realtà e politica prima o poi si sarebbe compenetrato al tessuto connettivo delle istituzioni. Sempre da cittadino di cui sopra, ho perso il rispetto dello Stato e non credo di essere solo, purtroppo noto che la compagnia non è delle migliori essendo essa composta da “melamarcisti”e Sfascisti sia pure con un distinguo: essi sono figli di un tempo di assenza dello Stato, sono cresciuti orfani idealizzandolo, io e altre persone abbiamo perso il rispetto verso di esso perché sapevamo cosa era e vediamo cosa è diventato tradendoci lui e chi per esso. Per questo, esattamente come l’autore dell’articolo, personalmente sono arrabbiato, non indignato, disgustato non irritato.