di Luca Marcolivio

Partiamo da un dato di fatto: a Convention concluse, chi ha guadagnato terreno, sia pur di poco, è stato Donald Trump. Stando alla media dei sondaggi curata da “RealClearPolitics“, all’apertura della Convention democratica di Milwaukee (17-20 agosto), Joe Biden era al 50,2% delle preferenze di voto: il 31 agosto, dopo la formalizzazione della sua candidatura a presidente degli Stati Uniti, Biden aveva perso mezzo punto, scendendo al 49,6%. Un punto è invece quanto guadagnato da Trump dall’inizio della Convention repubblicana di Charlotte (24-27 agosto). Il presidente uscente è passato dal 42,3% al 43,4% e ora è a -6,2% dallo sfidante. Si dirà che sono numeri irrisori e che è ancora troppo presto per parlare di rimonta, eppure è significativo che la Convention non abbia giovato ad uno sfidante democratico che, a fine giugno, staccava Trump di ben dieci punti. Ad incidere, negli sviluppi più recenti della campagna elettorale, vi sono probabilmente i primi segnali di ripresa economica (il tasso di disoccupazione, dal 15% di inizio lockdown, è sceso intorno al 10%) e la degenerazione violenta delle marce anti-razziste e antifa di Black Lives Matter.

Ci sono però altri numeri, di cui la stampa mainstream americana e internazionale non si occupa, ma che varrebbe la pena prendere in considerazione. I primi dati sono relativi alle ormai archiviate primarie presidenziali. A dispetto della pandemia, le primarie democratiche hanno fatto registrare un incremento della partecipazione al voto: complessivamente quasi 37 milioni di elettori democratici si sono recati alle urne, 19 milioni dei quali hanno accordato la loro preferenza al vincitore Joe Biden. Cifre che riportano l’interesse verso le elezioni ai livelli del 2008, quando gli elettori democratici portarono Barack Obama alla nomination e, poi, alla Casa Bianca.

Anche in casa repubblicana, comunque, l’argomento elezioni è particolarmente sentito e il consenso intorno a Donald Trump è sensibilmente cresciuto rispetto a quattro anni fa. Per i presidenti uscenti le primarie, normalmente, sono una pura formalità e la partecipazione al voto è abissalmente inferiore rispetto a quelle che nominano gli sfidanti. In ogni caso, Trump ha totalizzato oltre 18 milioni di voti, staccando notevolmente sia George W. Bush, che nel 2004 fu ricandidato con quasi 8 milioni di voti, sia Obama, che nel 2012 corse per la seconda volta per la Casa Bianca forte degli oltre 6 milioni di voti ottenuti alle primarie democratiche. Numeri che lasciano ben sperare per Trump e per i Repubblicani, in vista del 3 novembre.

Un ulteriore sguardo andrebbe poi rivolto ai social. In questo ambito, i numeri sono impietosi per Joe Biden. A una decina di giorni dalla fine della Convention di Milwaukee, i follower del candidato democratico su Twitter sono appena 9 milioni contro gli oltre 85 milioni per Donald Trump. Non vanno meglio le cose su Facebook per Biden: 2 milioni e mezzo di like, contro i 28 milioni di Trump. Non è tutto: su Facebook, il candidato democratico è incredibilmente surclassato da ben due dei suoi “rivali interni” sconfitti alle primarie: Elizabeth Warren supera i 3 milioni e 300mila di like, ma ancor meglio riesce a fare Bernie Sanders, che si attesta oltre i 5 milioni e mezzo. L’attempato esponente della sinistra americana, inoltre, sfiora i 13 milioni di followers su Twitter: quattro milioni in più di Biden, che pure l’ha battuto alle primarie.

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A cosa sono dovute queste asimmetrie mediatico-elettorali? Forse la maggioranza silenziosa americana si sta riposizionando verso sinistra e verso candidati “usato sicuro”, percepiti, nonostante tutto, come rassicuranti e moderati? Lo scarso carisma di Joe Biden e le sue proverbiali gaffe non sono sicuramente un buon viatico per l’ultima fase della campagna elettorale, in cui normalmente si misura la reale consistenza dei candidati, specie in sede di confronto televisivo. Dietro il suo approccio poco brillante, comunque, Biden nasconde il piglio calcolatore e voltagabbana dei centristi di ogni latitudine (si pensi ai cattocomunisti italiani…), sempre pronti a saltare sul carro del vincitore vero o presunto. In tal senso, la svolta a sinistra dell’ex vicepresidente USA e il suo accordo con l’ala “socialista” del Partito Democratico americano possono ricordare molto le modalità con cui ha preso forma il governo giallorosso nostrano: alleanze eterogenee e stravaganti che, pur di non avere “nemici e sinistra”, imbarcano tutto e il contrario di tutto.

Non è detto che la retorica anti-trumpiana, incarnata in particolare dalla candidata vicepresidente Kamala Harris, non possa funzionare: una strategia radicale e radicalizzante, volta a mettere in un unico calderone elettorale i divi hollywoodiani e gli operai della Rust Belt, i manager della Silicon Valley e gli ispanici appena naturalizzati, gli intellettuali di Harvard e Berkeley e i disoccupati di Haarlem. Utile (forse) per vincere, ma lo scotto si paga poi governando. L’America first di Trump, anche qualora non dovesse più incarnare la maggioranza silenziosa del Paese, ha il pregio di rappresentare un’America più omogenea e dalle idee più chiare. Un’America forse più rozza ma meno bizantina e contraddittoria, nel bene o nel male, più fedele alla sua storia e alla sua identità: in una parola, un’America… più americana.

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Saggista e giornalista professionista, è accreditato alla Sala Stampa della Santa Sede dal 2011. Direttore del webmagazine di informazione religiosa"Cristiani Today", collabora con "La Nuova Bussola Quotidiana"e"Pro Vita & Famiglia". Dal 2011 al 2017 è stato caporedattore dell’edizione italiana di "Zenit".