di Alessandro Previdi

Le agenzie di stampa hanno accolto come una bomba il nuovo (prevedibilissimo) exploit politico di Chiara Ferragni sui tristi fatti di Colleferro: “Il problema lo risolvi cancellando la cultura fascista”. Addirittura. È un segno chiaro, ovviamente meditatissimo e costruito, rivelatore di un pensiero che inizia a dominare anche in Italia: il disimpegno politico non paga più. È il momento di capitalizzare sul suo opposto radicale.

Come sempre in questi campi, serve guardare agli USA per vedere i prodromi di quello che succede in Italia.
Si prenda l’esempio di Taylor Swift. Una brevissima biografia utile a capire il fenomeno: classe 1989, raggiunge il primo successo discografico ancora minorenne con l’album di debutto, un country pop rivolto essenzialmente ad una platea femminile, WASP, giovanissima. Cinque milioni di copie vendute. Da lì in poi è un’ascesa senza battute d’arresto: il country si perde per strada, il pop domina ma la Swift rimane l’America’s sweetheart. Bella, bionda, bianca, nessuno scandalo, tanto successo.

Per gran parte della carriera, il massimo che le viene concesso di esercitare è quello di un impegno politico all’acqua di rose. Un occhio di riguardo alle comunità omosessuali – del resto fetta importante dei consumatori di musica pop – e il supporto ad un maggior coinvolgimento delle donne in politica, fine della storia. Non si poteva gettare l’icona Taylor Swift in arene troppo pericolose, non ancora. Da quella stessa platea ultraprogressista, che oggi sta facendo piovere fuoco e che pochi anni fa stava ancora scaldando i motori, fioccano accuse di appropriazione culturale, di essere “troppo bianca”, addirittura di giocare con immaginari nazisteggianti. Cambia tutto con le elezioni di midterm del 2018. Taylor Swift si è svegliata e ha scoperto di vivere in un Paese da incubo: razzista, omofobo, misogino. Nel giro dei due anni successivi si impegna per inanellare una dopo l’altra le più noiose banalità liberal, da perfetto NPC dell’establishment. Si schiera ferocemente contro Donald Trump, chiede la rimozione dei monumenti razzisti, dichiara di essere “ovviamente pro-choice” (ovviamente!), piange le vittime della brutalità poliziesca e quant’altro.

Come sempre, alle celebrità amiche dei Dem – cioè tutte, o quasi – viene concessa non solamente libertà di parola ma financo autorità su qualsiasi argomento, dalla legislazione alla storia, dalla bioetica alla sicurezza. Alla faccia del lasciare parola solo agli esperti. Viene da chiedersi quanto tempo abbiano i VIP per edursi a fondo in campi così disparati. Potrebbe sembrare un giochino pericoloso: e invece non lo è, perché non è autentico, ma è stato meditato a dovere e il grande pubblico cotto a puntino. Lo conferma il fatto che il nuovo album della Swift sbanca come mai prima. Se una parte dei fan può averla abbandonata, poco conta: da un lato, il prodotto Taylor Swift si è ri-targetizzato e ha guadagnato nuovi follower. Dall’altro lato, per l’effetto propagandistico alla base di tutto, il gioco varrebbe la candela in ogni caso. I soldi non sono un problema per le megamajor, quello che conta è il messaggio. “Se nemmeno la moderata, timida ragazza della Pennsylvania può tacere di fronte alla malvagità del sistema (ovviamente bianco, ovviamente razzista, bla bla), come potrete tacere voi?”

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Il medesimo discorso, senza cambiarlo di una virgola, sembra valere per Chiara Ferragni. Anni di disimpegno sociopolitico; un occhiolino ai gay qui, un accennuccio femminista di là. Tutto accettabile, modesto. Addirittura confesso di averla presa in mezza simpatia dopo il parto: sia mai che la popolare Chiara Ferragni potesse diventare un incentivo alla natalità. Poi arriva un articolo del “Financial Times” che parla di Ferragni & Fedez come parte di quel Paese che non vuole accettare Salvini e il famigerato salvinismo. Puzza di bruciato. Si replica qualche mese dopo, con un post su Instagram tanto ilare da risultare addirittura imbarazzante: Chiara Ferragni, un brand vivente dal valore di dieci milioni di Euro, è in piazza a Milano, conciata non casualmente come una black bloc e con tanto di cartello in cartone, a protestare per la morte di George Floyd. Un teatrino commovente, tanto che viene perfino da prendere le parti di Chef Rubio quando la critica.

Dell’ultima uscita stavo parlando in apertura e ritorno qui. La questione è davvero molto semplice: ed è che il martellamento mediatico è tale che anche quella che fino a ieri era la più vapida, la più vacua delle stelline può permettersi affermazioni fortissime, sparate clamorose senza timore di contraccolpi perché il terreno sul quale si muove è stato reso sicuro da anni e anni di pessimo giornalismo, di distorsioni politiche, di abusi mediatici. Per non parlare poi del fatto che l’effetto delle parole di una Ferragni viene amplificato da grancasse che battono tutte allo stesso ritmo.

Quali soluzioni? Per il momento, l’unica arma a disposizione è quella di togliergli l’aria di cui vivono; smettere di supportare, smettere di sostentare a suon di like e condivisioni. Si ripaghi costoro con la moneta che meritano, e senza pietà. Trattasi non di spontaneo coinvolgimento politico ma di una guerra culturale condotta a bassa ma costante intensità: prima ce ne si rende conto e si inizia a rispondere ai colpi, meglio è.

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Giurista schmittiano e studioso di geopolitica