di Filippo Giorgianni
Sul referendum in merito al taglio dei parlamentari i cittadini sono bombardati continuamente da slogan. specialmente per il “Sì”: veri e propri miti assolutamente insensati dal punto di vista politologico. Basta elencare alcuni di tali miti ed analizzarli per comprenderne la banalità: 1) si pensa che la rappresentanza parlamentare vada tagliata per risparmiare denaro; 2) si dice che il numero dei parlamentari delle Camere italiane sia troppo elevato in proporzione alla popolazione, se raffrontato con i parlamenti di altri paesi più grandi; 3) si dice che il numero minore condurrebbe alla possibilità di conoscere i parlamentari e quindi responsabilizzarli; 4) si dice che il taglio condurrebbe ad una maggiore efficienza e selezione dei parlamentari.
Per quanto riguarda il primo punto, il problema è capire cosa sia la rappresentanza. Essa non si valuta “un tanto al chilo”, non si valuta sulla base del semplice costo, come d’altronde nessuno si sognerebbe di lamentarsi del costo delle forze dell’ordine o della sanità senza ricordare primariamente a cosa esse servano. Ebbene, i parlamentari servono esattamente a rappresentare i territori. Quanti più sono i rappresentanti tanto più i territori (anche quelli meno popolati) saranno rappresentati, perché i seggi da distribuire su di essi saranno di più. Certo, la rappresentatività effettiva (vale a dire la capacità di rappresentare realmente le persone di cui si è rappresentanti) nella scienza politica non si lega soltanto al numero di rappresentanti, ma se si diminuisce tale numero la rappresentanza è sicuro che diminuisca, perché più territori dovranno essere accorpati in circoscrizioni elettorali che esprimono meno seggi: se ieri erano disponibili per una provincia 8 seggi ed oggi ce ne sono solo 4, ciò significa che sarà necessario un numero più elevato di voti per raggiungere quei 4 seggi e, dunque, chi avrà più voti (tendenzialmente i politici delle grandi città) sarà eletto, mentre i centri meno grandi (magari anche importanti all’interno della provincia) non saranno rappresentati perché in questi centri abitati più piccoli il voto si spezzetterà tra tanti candidati locali, meno forti rispetto a quelli della città capoluogo. In tal modo, molte cittadine (anche di media grandezza) o capoluoghi più piccoli saranno privi di rappresentanti a cui rivolgersi per denunciare i propri problemi locali.
Ecco, l’idea che ciò sia normale è la negazione di principio di qualsiasi rappresentanza: la rappresentanza non si valuta sulla base dei costi, ma sulla base della sua funzionalità. Se si intende risparmiare il costo a scapito della rappresentanza, la logica conseguenza è eliminarla del tutto ed instaurare una dittatura perché, se la rappresentanza conta meno della spesa, tanto varrebbe azzerare del tutto tale spesa e prendere atto che un solo uomo costa meno di seicento rappresentanti: perché novecento sarebbero costosi e seicento no? Perché la rappresentanza va valutata in termini economici solo quando si tratta di diminuirla ma non si ha il coraggio di mettere l’economia davanti a tutto anche quando si tratta di eliminarla definitivamente? La verità è che il criterio economicistico è semplicemente sbagliato per valutare la rappresentanza, per la quale serve un criterio diverso che è appunto la sua funzione: se la rappresentanza serve ad adempiere a quella funzione, non conta alcunché la spesa che viene sostenuta per garantire quella funzione e, laddove vi sia una rappresentanza inadeguata, non si tratterà di tagliare i rappresentanti ma di prevedere correttivi (come leggi elettorali dotate di preferenze) che permettano che essa migliori, nonché, laddove vi sia un eccesso reale di spesa, si tratterà di mantenere standard elevati di rappresentanza, ma spendendo di meno: per esempio, mantenendo (o implementando) il numero dei rappresentanti, ma pagandoli mensilmente con uno stipendio minore. Non va poi dimenticato che il presunto risparmio introdotto con la vittoria del “Sì” sarebbe sostanzialmente minimale, intorno agli 80 milioni di euro l’anno (che in un bilancio annuo di 1800 miliardi di euro significa una goccia nel mare, pari a poche decine di centesimi l’anno per ogni italiano), risparmio che non può valere la riduzione della rappresentanza e che, quando venne introdotto dalla riforma del Governo Renzi (che tagliava 215 senatori), fu rifiutato dagli stessi membri del MoVimento 5 Stelle (come Di Maio e Toninelli) che in pubblica conferenza ripetevano non si potesse barattare “la democrazia per un caffè”.
Un altro mito referendario sostiene che il numero dei parlamentari delle Camere italiane sia troppo elevato in proporzione alla popolazione, se confrontato con i parlamenti di altri paesi più grandi o simili all’Italia. Qui si entra addirittura nell’ambito della manipolazione. Da un punto di vista meramente numerico non solo è semplicemente falso che il numero di eletti sia eccessivo rispetto ad altri paesi, ma è proprio sbagliato fare il paragone in termini meramente numerici tra paesi omologhi o più grandi dell’Italia, perché appunto la rappresentanza è qualcosa che attiene alla capacità di rappresentare i territori e dunque non si valuta in termini assoluti sulla base della popolazione complessiva (come se la funzione del rappresentante non sia la medesima a Malta tanto quanto negli Stati Uniti).
L’esempio tipico di questa comparazione errata si ha quando si paragonano i 945 parlamentari italiani (per una popolazione di circa 60 milioni di abitanti) con i 535 del Congresso federale statunitense (per una popolazione di circa 350 milioni) – paragone assolutamente stupido anche per altre ragioni che si vedranno in seguito. Ma laddove si guardasse al numero dei parlamentari ogni centomila abitanti, si scoprirebbe che l’Italia è tra i paesi con le proporzioni più basse (con paesi infinitamente più piccoli dotati di molti più parlamentari ogni centomila abitanti senza che ciò scandalizzi nessuno), essendo l’Italia al ventitreesimo posto su ventotto paesi europei ed essendo molto vicino alla media di tutti gli altri paesi più grandi (a parte la Germania, fanalino di coda, che ha una proporzione abbastanza bassa: 0,9): l’Italia è cioè dotata di 1,6 parlamentari ogni centomila abitanti, vicinissima all’1,5 della Polonia, l’1,4 della Francia ed infine l’1,3 di Olanda e Spagna, laddove tutti gli altri paesi europei hanno proporzioni molto più elevate (tutte al di sopra dei 2 parlamentari ogni centomila abitanti, a parte l’1,8 del Belgio, giungendo anche a proporzioni enormi, prossime o superiori ai 5, in moltissimi paesi). Quando si dice dunque che l’Italia è fuori da ogni media europea si dice una palese falsità.
Proprio perché il punto centrale dovrebbe essere la proporzione tra eletti e popolazione, e dunque il fulcro dovrebbe ruotare attorno alla possibilità del numero dei parlamentari di rappresentare adeguatamente i territori, va notato come la scelta dei Costituenti fosse proprio di andare incontro ai mutamenti della popolazione, al punto da non fissare inizialmente un numero determinato di parlamentari, ma individuando una proporzione fissa tra eletti e cittadini: il numero dei parlamentari prima del 1963 era stato individuato in un deputato ogni ottantamila persone e un senatore ogni duecentomila. Solo successivamente (nel 1963) una legge costituzionale fissò a 630 deputati e 315 senatori il numero di parlamentari. La popolazione del 1963 era inferiore a quella attuale di quasi dieci milioni di cittadini: se il criterio continuasse a seguire la proporzione adeguata tra eletti e popolazione, il numero dei parlamentari dovrebbe crescere, esattamente come avvenuto in Francia (laddove il numero dei senatori è stato accresciuto nel 2004 proprio per adeguarsi alla popolazione incrementatasi col tempo). Ciò non è avvenuto in Italia ed è insensato che, all’opposto, si stia perseguendo un taglio lineare.
Infine, andrebbe notato che i paragoni con i paesi esteri hanno poco senso già di per sé. Infatti, paragonare i numeri senza paragonare i sistemi di rappresentanza è politologicamente inconsistente e soprattutto disonesto. In un sistema parlamentare puro come quello italiano attuale, ad esempio, gli unici veri rappresentanti della cittadinanza sono appunto i parlamentari, laddove ogni altra carica non è ad elezione diretta. Ciò significa che l’unico modo per essere rappresentati è attraverso il Parlamento: decurtare i parlamentari, senza alcun correttivo ulteriore, significa decurtare gli unici strumenti (per quanto imperfetti siano) di rappresentanza che esistono per il cittadino senza introdurne degli altri. In altri paesi, anche lì dove essi siano inferiori per numero, esistono invece altri canali di rappresentanza (appunto dei correttivi), come l’elezione diretta di altre cariche, oltre quelle parlamentari, così bilanciando il fatto che vi sia un minor numero di deputati e senatori.
Un esempio è il summenzionato ed assurdo paragone con gli Stati Uniti. Gli U.S.A. non sono un parlamentarismo ma un presidenzialismo, in quanto hanno un’elezione (di fatto) diretta del Presidente della Repubblica (che è anche Presidente del Consiglio) che è l’unico effettivo motore dell’iniziativa legislativa (che invece in Italia risiede appunto formalmente sui parlamentari, nonostante la prassi dei Governi cerchi illegittimamente di scavalcarli in modo improprio). Ciò significa che il popolo americano è rappresentato già dal Presidente, oltre che dalle Camere del Congresso, e dunque ciò garantisce una prima rappresentanza tramite la Presidenza che in Italia non esiste e che da quasi quarant’anni (dai lontani tempi di Craxi) è stato sistematicamente impossibile introdurre, sicché (per inciso) è irrealistico sostenere che il taglio dei parlamentari sia il primo passo di utopiche e futuribili riforme che mai arriveranno. Inoltre, gli U.S.A. sono uno Stato federale: le ampie competenze (realmente legislative) degli Stati membri della federazione non sono neanche lontanamente paragonabili a quelle infime delle regioni italiane, essendo essi dei veri e propri Stati con propri Governatori e proprie Assemblee legislative; le nostre regioni assomigliano più alle contee americane (dotate anch’esse di proprie assemblee) che non agli Stati federali. Ciò significa dunque che i parlamentari statunitensi non sono solo quei 535 di cui parla normalmente la retorica propagandistica del “Sì”: i parlamentari americani sono oltre settemila e il paragone tra il Congresso statunitense e il Parlamento italiano semplicemente non va fatto, dovendosi al più confrontare il Congresso americano col Parlamento europeo (che è l’organo parlamentare di quell’abbozzo di Stato federale che è l’Unione Europea e che, esattamente come il Congresso, convive a sua volta anch’esso con i Parlamenti degli Stati membri dell’Unione).
Similmente si può dire di ogni altro paragone: è altrettanto scorretto e manipolativo, per esempio, paragonare l’intero Parlamento italiano con singole Camere ad elezione diretta di altri paesi, notando quanti siano i nostri parlamentari in più rispetto alla Camera estera, e ciò è disonesto in quanto nei paesi dove una delle due Camere non sia eletta a suffragio diretto ma sia invece espressione degli enti territoriali (l’equivalente di comuni, province e regioni italiane), essa permane comunque in modo indiretto rappresentativa e quindi i suoi membri saranno egualmente parlamentari il cui numero va considerato nel computo complessivo. Del resto, poi, non va dimenticato che ogni paese ha una sua storia culturale, sociale e politica precisa e diversa da quella di altri paesi: le istituzioni politiche sono diverse da paese a paese proprio perché le norme fondamentali, quando vengono introdotte, tengono conto della specificità del proprio paese. Paragonare l’Italia, paese frammentatissimo fino a centosessant’anni fa (e che è rimasto fino ad oggi frammentato sia culturalmente che in termini economici), a qualsiasi altro paese dotato di uno spirito unitario come Francia o Germania (o Stati Uniti) è profondamente sbagliato e disonesto. La rappresentanza serve a garantire che in Parlamento giungano adeguati numeri di eletti dei vari partiti, al fine di garantire che siano rappresentati a sufficienza tanto i cittadini di maggioranza quanto quelli di opposizione, ma in un paese frammentato c’è anche una differenza territoriale da tenere in conto, per cui, ad esempio, un socialista siciliano ed un socialista lombardo saranno profondamente diversi nelle istanze che portano avanti (perché diverse sono le esigenze siciliane rispetto a quelle lombarde), nonostante appartengano alla stessa famiglia politica e perfino allo stesso partito. Tra l’altro, la legge oggetto di referendum ha tagliato in modo quasi del tutto casuale le percentuali di parlamentari per regione, non avendo avuto attenzione alle quantità di popolazione sui territori e favorendo lievemente al Senato le regioni del Nord a scapito delle altre.
Ancora: si è sentito dire che il taglio condurrebbe ad una responsabilizzazione dei parlamentari perché, essendo di meno, gli elettori li conoscerebbero meglio. Questo presunto “argomento” è di una povertà straordinaria perché è vero esattamente il contrario: quanto più sono i rappresentanti, tanto più essi saranno diffusi sui territori e quindi conosciuti dai cittadini. Il numero che diminuisce non fa controllare di più i politici da parte degli elettori, ma anzi li rende più lontani dai territori: se un centro abitativo medio-piccolo come Milazzo riesce ad esprimere il proprio deputato perché nella provincia di Messina (e nell’intera Regione Siciliana) i seggi a disposizione sono di più, è più facile che il cittadino milazzese conosca il proprio concittadino eletto e possa fare pressioni su di lui, facendo pesare così i suoi eventuali errori; se invece tra il politico milazzese, quello messinese e quello catanese, essendoci meno seggi a disposizione, passa inevitabilmente il politico con più voti – e quindi quello che magari viene dalla città più grande, ossia il politico catanese – il cittadino medio di Milazzo non conoscerà veramente l’eletto di Catania se non solo nominalmente, non avendo mai avuto la possibilità di incontrarlo ed eventualmente di interloquirci. Potrà saperne il nome, ma la lontananza geografica del politico lo renderà completamente estraneo e maggiormente irraggiungibile per il cittadino non catanese.
Infine, è insensato parlare di maggior efficienza e qualità dei parlamentari in caso di vittoria del “Sì”. Infatti, proprio al contrario, un Parlamento più piccolo, specie al Senato (che viene ridotto a 200 membri), può semmai comportare difficoltà nella composizione delle commissioni parlamentari: essendo minore il numero dei membri della singola Camera potrebbero essere necessarie sovrapposizioni di incarichi sul medesimo parlamentare, ingolfando così il lavoro delle varie commissioni che vedrebbero propri membri costretti a dilazionare nel tempo i lavori delle commissioni di cui fanno parte al fine di armonizzarle. Inoltre, la qualità dei parlamentari non dipende certo dal loro numero più ristretto ed è puerile anche solo pensare vi sia un qualche automatismo che colleghi le due cose. La qualità infatti dipende soltanto da fattori totalmente slegati al numero dei parlamentari: dalle leggi elettorali, dalla selezione e formazione operate dai partiti, al più dalla scelta operata dagli elettori (laddove esistano le preferenze). Tanto più che, alla luce dell’attuale legge elettorale, sarà più facile accada il contrario, vale a dire che diminuisca la qualità insieme alla quantità: se, in effetti, l’attuale legge elettorale permette ancora le liste bloccate e tale caratteristica non viene eliminata, coloro che decideranno la posizione dei candidati nelle liste non saranno gli elettori tramite la preferenza, bensì le segreterie di partito, vale a dire una ristretta oligarchia. Tagliare i parlamentari senza eliminare le liste bloccate significa restringere la democrazia e favorire tali oligarchie che continueranno a inserire nelle liste uomini di loro fiducia e mediocri, magari anche sprovvisti di bagagli di voti, a scapito di chi, avendo dei voti alle spalle, è più indipendente: tagliando i seggi a disposizione, se oggi c’era qualche possibilità in più che questi indipendenti riuscissero ugualmente ad entrare in Parlamento nonostante la tagliola operata dalle segreterie di partito, domani sarà più difficile, ed ecco dunque che la qualità degli eletti diminuisce riducendosi ai soli servi delle segreterie politiche ed aumentando il potere dei pochi.
E invero è questa, alla fine, la tendenza generale attuale: se c’è chi propone questo taglio lineare, ciò avviene semplicemente perché il modello che a livello europeo viene oggi proposto – e che in Italia è divenuto quasi “obbligatorio”, dopo quasi dieci anni di esecutivi tecnici – è proprio quello della mancata considerazione dell’elettorato (e degli organi che lo rappresentano) in nome della preponderanza dei tecnici. Il taglio dei parlamentari va nella medesima direzione proprio nel momento in cui, dopo diversi anni di marginalizzazione del Parlamento (a colpi di decreti governativi e questione di fiducia per blindarli), si è giunti addirittura all’obbrobrio giuridico e politico della gestione di un’emergenza tramite atti amministrativi quali i famigerati D.P.C.M., senza passare dal Parlamento (come vorrebbero svariati articoli della Costituzione). Pensare di lasciare pochi parlamentari nelle assemblee perché essi sono comunque irrilevanti significa esattamente consegnarsi in catene alla definitiva irrilevanza degli elettori nelle scelte politiche del futuro, anche le più gravi e disastrose, riducendo le assemblee rappresentative ad organi semi-consultivi, commissariate da vincoli esterni provenienti da Governi popolati da sedicenti “tecnici” e così pronte ad essere definitivamente eliminate in modo da impedire del tutto che gli elettori si possano esprimere.
Posto tutto quanto si è detto, allora, si comprende come sia necessario votare e far votare “No”, senza dimenticare anche un’ultima ragione di tipo tattico: un Governo come quello attuale, che prova a rimanere incollato a Palazzo Chigi contro ogni altra evidente ragione contraria, potrà forse ignorare la bocciatura di una propria iniziativa attraverso l’affermazione del “No”, ma, qualora incassi una ratifica del “Sì”, ciò che è certo ed automatico è che esso non farà altro che blindarsi ancora di più, perché la vittoria del “Sì” costringerebbe il Parlamento attuale a ridisegnare le circoscrizioni elettorali, diminuendo i seggi per ognuna di esse al fine di poter rendere possibili nuove elezioni, e con questa scusa la pur traballante maggioranza attuale potrà tirare a campare molto a lungo, aspettando la scadenza della legislatura prima di operare questa risistemazione delle circoscrizioni e usando così quest’ultima come giustificazione per impedire che vengano sciolte le Camere in via anticipata.
Laureato in Giurisprudenza, è dottorando in Scienze Storiche presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università degli Studi di Messina, ove studia il pensiero di Eric Voegelin.
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