di Alfonso Piscitelli

Italia unita e Roma Capitale: negli anni Sessanta del XIX secolo la Francia di Napoleone III – che già con gli accordi di Plombieres aveva cercato di sostituire l’egemonia francese sulla penisola a quella austriaca – protegge il declinante potere temporale del Papa. Ciò crea un dissidio tra le forze unitarie: i governi della destra sono di orientamento filo-francese e quindi con molta cautela procedono sulla strada per Roma. Proprio per accontentare Parigi a metà degli anni ’60 la capitale viene spostata da Torino a Firenze: la città cuore del Rinascimento avrebbe potuto essere una degna capitale d’Italia, quasi al punto da far dimenticare Roma.

Le forze della sinistra nazionale premono invece per Roma Capitale. In questo contesto matura l’impresa garibaldina del 1867, quando Garibaldi e i suoi volontari affrontano i Francesi a Mentana e vengono sconfitti. L’impresa dà al governo della destra le stesse difficoltà che avrebbe dato nel Novecento l’impresa di Fiume di D’Annunzio a Giolitti, per questo Garibaldi stesso viene ferito dall’Esercito regolare italiano e per breve tempo tradotto nel carcere militare di Fenestrelle.

È la guerra franco-prussiana del 1870 a far superare questo momento drammatico. Allo scoppio del conflitto il governo della destra è tendenzialmente filo-francese e re Vittorio Emanuele III vorrebbe addirittura intervenire a fianco di Napoleone III. La sinistra assume una più ponderata posizione di neutralismo filo-prussiano. La linea che verrà fatta propria alla fine dal Primo Ministro Sella. La débâcle di Napoleone III frutta all’Italia il via libera per Roma Capitale. Si ricompone dopo 1500 anni l’Italia secondo il disegno di Augusto: unita dalle Alpi al Mediterraneo con Roma come insostituibile centro.

Il governo pontificio ha il buon senso di opporre una resistenza soltanto simbolica. L’abbattimento di un muro – la famosa Breccia di Porta Pia – basta a segnare la fine del governo ecclesiastico. Ed è un esponente di primo ordine della aristocrazia romana, don Michelangelo Caetani duca di Sermoneta, romantico esegeta di Dante alla maniera di Gabriele Rossetti, ad assumere la guida del governo di transizione dell’Urbe, in un clima ben diverso da quello mazziniano della Repubblica Romana del 1849.

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Si apre però un problema etico-politico: non solo un dissidio esteriore, ma una lacerazione nella coscienza interiore della larga maggioranza degli Italiani, divisi tra aspirazione unitaria e fede cattolica. Nella tempesta emotiva del conflitto col Pontefice che si dichiarava “prigioniero in Vaticano” di certo i cattolici patrioti come Manzoni potevano confidare nelle parole di Cristo: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (la frase che fonda il principio di separazione dei poteri che distingue le culture di origine europea dalle teocrazie) e, a voler rincarare la dose, nella invettiva di Dante:

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!

Mentre la sinistra scalpita – imbevuta delle passioni anticlericali dell’epoca – per farla finita con l’eredità politica del millenario regime pontificio, la destra mira a ricucire la portata dello “schiaffo” di Porta Pia e offre al Papa un lauto indennizzo per la fine (?) del suo potere temporale.

Ha collaborato ai quotidiani "L'Indipendente" e "Liberal", è stato autore della trasmissione "L'Argonauta" di Rai Radio Uno, è opinionista de "La Verità", "Il Borghese", "Primato Nazionale". Tenente in congedo dell'E.I.