di Vincenzo Pacifici
Recensione a ALESSANDRO BARBANO, La visione. Una proposta politica per cambiare l’Italia, Milano. Mondadori, 2020, pp. 112. €17,00
L’araba fenice, come è universalmente noto, è un uccello mitologico, caratterizzato dal fatto di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte. Partiti svaniti illacrimati o ridotti allo stato larvale o presenti con superstiti camuffati, annidati, ad esempio, in FI o neutralizzati nel PD, continuano a fornire le prestazioni abituali anche oggi. Ad esempio, sul tema del referendum sottoposto al giudizio popolare, in cui la “destra” ha ufficialmente “segnato un clamoroso autogol”, uomini della sinistra ed ex- democristiani, come Ceccanti e Casini, si sono contrapposti, con opinioni assolutamente inammissibili il primo e con giudizi accettabili ma banali e non incisivi il secondo.
Vale la pena veramente di considerare, checché ne pensi Barbano, l’impazzimento e lo sbandamento della politica nei decenni trascorsi come il naturale frutto, l’inevitabile prodotto delle “tre culture novecentesche”, quella liberale, quella popolare e quella socialista. Del clima attuale, in cui la prepotenza ed il settarismo rosso e grillino continuano ad imperversare e a predominare è testimonianza probante la vicenda del governatore del Piemonte, costretto poi a vergognosi “mea culpa”, che ha provocato “una bufera”, per aver sostenuto che col fascismo maggiore e più ampio era il tempo dedicato alla ginnastica.
Pur esprimendo la più assoluta lontananza dalla proposta di fondo dell’ex direttore de “Il Mattino” e ex vicedirettore del “Corriere dello Sport”, non mancano nel lavoro, edito, “intelligentibus pauca”, da Mondadori, proprietà di Berlusconi, valutazioni e ammissioni giuste ed opportune. La prima sulla pandemia, che ha testato il livello di efficienza delle democrazie. “Per l’Italia è stata una Caporetto”. Viene poi saggiamente valutata come “maldestra” la decisione del blocco dei voli dalla Cina, mentre gli uomini d’affari, che rientravano dalla nazione comunista, “hanno optato per una triangolazione con i Paesi dell’Est, eludendo [in barba a Conte] una necessaria tracciabilità del loro percorso”.
Barbano, poi, in maniera centrata ritiene che la politica “ha bisogno di idee coltivate con cura e cementate nel corpo del Paese. Oltre il tempo dell’urgenza”. Non certo è possibile individuare la terapia, come avviene da oltre un anno, dopo la “bravata” compiuta da Salvini nel 2018, con “armate Brancaleone” partitiche superate e coagulate senza radici o coacervi presuntuosi, arroganti, fondati sul vuoto, di insuperabile antipatia generalizzata (i grillini).
Altre interessanti osservazioni sono espresse nel passaggio in cui si riconosce che la democrazia attuale “è una democrazia che diffida del sapere in quanto sapere [ vedi il caso della Azzolina] per manifesto complesso di inferiorità o piuttosto soccombe a questo tutte le volte in cui è costretta a chiamarlo a Palazzo. Se n’è avuta una prova, durante la crisi del coronavirus , quando, a Palazzo, il potere senza “sapere del potere” ha dovuto transigere con “il sapere che si fa potere”, rappresentato dagli uomini di scienza impegnati nella lotta al virus”. Barbano considera infine felicemente “l’attuale debolezza della delega in tutte le sue conseguenze per la democrazia”, arrivando a suggerire “una ricomposizione del rapporto tra competenza politica e saperi”, allo zero assoluto per la totalità dei ministri del governo giallorosso.
Laureato in Giurisprudenza e in Lettere, è stato fino al 2015 Professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato, tra l'altro, volumi su Crispi, sul problema dell'astensionismo e dell'assenteismo nelle consultazioni politiche del periodo unitario, sui consigli provinciali all'inizio del XIX secolo, sulle leggi elettorali del 1921 e del 1925. È presidente della Società tiburtina di storia e d'arte.
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