di Lorenzo Bernardini

La parola “potenza” sembrava ormai scomparsa dal vocabolario politico europeo. Di certo non in quello mondiale: gli USA di Trump, la Russia di Putin e la Cina di Xi non hanno abdicato rispetto alla missione storica della quale si sentono investiti. Persino un opportunista come Erdogan — un tempo laico europeista, ora aspirante sultano della Umma — ne abusa per giustificare le proprie velleità neo-ottomane.

Niente di questo avviene in Europa da tempo immemore. L’Europa vince il Nobel per la Pace, la Germania accoglie un-milione-e-trecentomila immigrati, l’Europa si allarga ad Est e salva i miserandi dal socialismo reale, l’Europa rimbrotta Viktor Orban e Andrzej Duda per lesa maestà dello stato di diritto e poi è guidata da un esecutivo che non risponde a nessun mandato popolare. Che bella l’Europa: un florilegio di buone intenzioni, ecumenismo e retorica sentimentale. Una bolla di idealismo in un oscuro mare di realpolitik e cinismo, proxy wars e multilateralismo arrancante, failed states e guerre civili.

Una bolla, appunto. Una paradossale sfera concava. Sferica perché totalizzante ed escludente, sempre più incapace di rapportarsi su un piano di parità con visioni del mondo diverse dalla propria. Concava perché sempre più ripiegata in sé stessa, a discettare di quote latte e dimensioni di vongole mentre intorno il mondo brucia.

Fin qui tutto male, dicevamo. Poi, nella nebbia delle magnifiche sorti e progressive, proprio là dove non ti aspetti, ecco spuntare un appello alla potenza. E si badi bene, non potenza aggettivata. Nessun appello all’Europa come faro di civiltà, del libero mercato, dei diritti un tanto al chilo. Nessun messianismo d’accatto, brutta copia dello spirito redentore con cui gli USA lanciarono la non compianta War on Terror. No, potenza e basta. Un crudo realismo a la Morgenthau che, almeno su questa sponda dell’Atlantico, fino a ieri suscitava crisi isteriche e immediati appelli per la salvaguardia dello stato democratico.

Ancora più sorprendente è la la fonte che ha osato pubblicare tale appello. Stiamo infatti parlando di “Politico Europe”, versione vetero-continentale di quell’enfant prodige del progressismo liberal che è “Politico”. In particolare, ci stiamo riferendo all’articolo di Hank Kribbe pubblicato il 13 ottobre. Kribbe è un teorico politico, con una lunga esperienza alle spalle da advisor delle istituzioni comunitarie. Sicuramente ben conscio del defatigante idealismo che permea i processi decisionali dell’Europa unita, il suo ultimo consiglio è piuttosto semplice: l’Europa deve cominciare a fare il player e smetterla di comportarsi da referee. In un’arena mondiale sempre più travagliata da frizioni sistemiche potenzialmente distruttive — ma quando mai non lo è stata? — è necessario cominciare a giocare duro. Almeno per mettersi al pari degli altri. Che dei principî morali hanno quasi sempre fatto a meno, ed ora cominciano a curarsi poco anche delle regole più elementari della convivenza civile. Dunque, si chiede Kribbe, “dopo tutto, quando le regole perdono importanza, chi ha più bisogno di arbitri?”.

In effetti, una certa attitudine da cartellino giallo l’Europa l’ha sempre mostrata. Con la sua ossessione per l’approccio multilaterale e il capillare presenzialismo in tutti i forum di mediazione internazionali. Insomma, l’Europa adora mettere i contendenti al tavolo, sedersi da un lato e fregiarsi — con chi poi? — dei supposti meriti che ciò comporterebbe. Ritorna sempre quell’ingenuità nei rapporti internazionali, quel candore alla “volemose bene” che fa fare bella figura nel salotto progressista delle nazioni, certo, ma di problemi reali ne risolve pochi.

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Kribbe si rende conto che questo non è un problema di forma, ma di sostanza. L’Europa, in quanto moloch burocratico-procedurale, manca proprio dell’ethos necessario a mettersi in gioco. In quanto potenza regolatrice, l’UE soffre del complesso di superiorità tipico degli arbitri. Si sente al di sopra delle parti, elargisce lodi e punizioni come se non fosse coinvolta nel caso della partita per l’egemonia. Perché appunto l’arbitro non ha alcun interesse rispetto al risultato della partita.

Interesse. Questa è la parola chiave. Kribbe ci ricorda che “a differenza degli arbitri, i giocatori possono avere interessi e strategie per difenderli”. Insomma, una piccola rivoluzione. Volendo chiamare rivoluzione un appello a mettere in atto una prassi politica — il perseguimento degli interessi della propria comunità di riferimento — vecchia come il mondo e sistematizzata teoreticamente da Machiavelli nel 1532.

Forse, proprio in questo sta l’intrinseca debolezza dell’intero ragionamento di Kribbe. La narrazione occidentale delle relazioni internazionali negli ultimi trent’anni non ha fatto che demonizzare qualsiasi figura istituzionale più muscolare, qualsiasi proposta ideologica non allineata, qualsiasi progetto politico indipendente. Anche a casa nostra semplici tentativi di perseguire l’interesse nazionale in dossier cruciali come la guerra civile libica la crisi migratoria hanno suscitato immediate canee su fascismi alle porte e democrazie sull’orlo del baratro. “Politico” di certo non si tirò indietro nel presentare l’Italia come un paese vicino alla deriva autoritaria.

In conclusione, se Kribbe stesso mostra ben poca fiducia nel fatto che l’Europa riesca un giorno a vincere i propri tabù, ancora meno fiducia dovremmo avere noi che “Politico” superi i propri.

Laureato in Storia Contemporanea all’Università di Pisa, frequenta un master in Storia delle Relazioni Internazionali presso la London School of Economics.