di Stefano Beccardi

Può un pensiero politico ancora in itinere assurgere già a “pericolo pubblico”? Da quanto si apprende da una recente decisione del Tribunale di Milano, sì.

Breve excursus dei fatti: ad aprile 2019, nel corso della commemorazione dell’omicidio di Sergio Ramelli – militante diciottenne del Fronte della Gioventù assassinato nel 1975 da un nucleo di Avanguardia Operaia – viene chiamato il “presente”, a cui fa seguito il rituale saluto romano. Si tratta di una celebrazione che ormai da quarant’anni riunisce gli esponenti della cd. destra “neofascista”, o “radicale” o “sociale” che dir si voglia, su cui a più riprese la giurisprudenza di legittimità ha escluso l’illiceità della condotta, riconoscendo la peculiarità del momento di raccoglimento. Ciononostante, tanto il pressing di talune sigle politiche sulle pubbliche autorità, quanto il proliferare di azioni penali a carico dei partecipanti, rendono ogni anno la ricorrenza uno dei periodi più controversi della primavera milanese.

La Procura della Repubblica, in particolare, contesta ripetutamente il delitto di manifestazioni fasciste (art. 5 della cd. Legge Scelba, n. 645/1952), un reato che per integrarsi necessita di circostanze storico-ambientali “tali da renderlo idoneo a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste” (Corte Cost., sentt. 1/1957, 74/1958, 15/1973).

Tale premessa è essenziale ai fini del nostro discorso. Infatti, tralasciando le analisi giuridiche che meritano di essere approfondite in altre sedi, la notizia suscitata dalla decisione sta nel fatto che detti presupposti sono rinvenuti “nel presente momento storico, nel quale episodi di intolleranza e/o violenza dovuti a motivi razziali sono all’ordine del giorno e si assiste ad una pericolosa deriva sovranista”. Da qui la condanna degli imputati, rei di proselitismo.

Ecco, dunque: incomberebbe sull’Italia un tale clima di astio generato dalla “deriva sovranista”. Qualsiasi cosa volesse intendere il giudice con simile affermazione, il risultato logico a cui si perviene è la connotazione del “sovranismo” (in via di fatto totalmente sovrapposto al fascismo) quale fenomeno criminale.

Per vero, la genericità e laconicità delle asserzioni pare estratta più da un discorso politico o da un foglio di stampa “progressista”, che da un iter motivazionale. A meno che – e su questo bisogna porre attenzione – la narrazione e il fiorente allarmismo siano giunti a un punto tale da costituire “massima d’esperienza”, a cui il giudice può legittimamente rifarsi senza bisogno di riscontro ulteriore.

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Invero, dalle aule parlamentari (dove, per esempio, è in corso di approvazione il cd. “DDL Zan”) fino alle aule giudiziarie (oltre a questo caso, è altresì significativo il processo a carico di Salvini in veste di ex Ministro dell’Interno), riecheggia un Paese insicuro, rabbioso e persecutorio, a causa dei messaggi “sovranisti”. In tal senso, si può anche prescindere dal fatto compiuto, dalle effettive responsabilità, per sfociare nelle interpretazioni, in un processo fondato sull’etichettamento.

Il rischio è che tale modo di procedere possa via via riguardare chiunque metta in contestazione o si opponga politicamente alle agende “inclusive”. Come? Si inizia con il colpire “all’estremo” per comprimere man mano spazio “al centro”. In ciò, sin dagli albori dell’esperienza repubblicana gioca un ruolo prezioso la tattica del “ricatto antifascista”, che va oltre le concrete affermazioni e atteggiamenti compiacenti verso il Ventennio e, progressivamente, impone aut aut l’accettazione di determinate politiche e visioni sociali, pena la reprimenda. È un fattore che il “fronte sovranista”, qualsiasi cosa voglia oggi intendersi con ciò, deve tenere presente nella propria azione politica. Difatti, serve poco o nulla prendere le distanze da taluni movimenti ritenuti “estremi” se, ad ogni passo successivo, lo “estremo” si assottiglia fino a convergere verso il “centro”, il quale sarà comunque considerato, da talune frange dell’opinione pubblica e – evidentemente – anche dell’amministrazione dello Stato, una “pericolosa deriva” in sé.

Occorre, oggi più che mai, determinazione e lungimiranza nello stile ancor prima della innovatività e del coraggio nei programmi (ancora di là da venire), perché “ciò che non è progressista” – questa è forse l’unica certezza, finora – non si pieghi sotto la spada di Damocle di certe peregrine sentenze giudiziarie e politiche.

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Avvocato, ha un Master in Consulenza politica e marketing elettorale (Eidos).