di Giovanni Alterini

Nel corso di tutti questi anni da attore nel campo economico finanziario ho approfondito molteplici argomenti economici. uno di questi è il periodo del New Deal realizzato dagli Stati Uniti sotto la presidenza di Franklin Delano Roosevelt nel 1933.

Quando Roosevelt prese la presidenza si trovò di fronte a un paese travolto della grande depressione causata dalla crisi del ’29. La disoccupazione regnava negli Stati Uniti, dove circa 14.000.000 di lavoratori avevano perso il lavoro, il 50% del popolo americano aveva perso la casa dove abitava, le imprese non erano più competitive, il welfare non esisteva praticamente più, e i lavoratori impiegati erano ridotti in povertà da salari da fame e senza alcuna tutela.

In quel periodo, dopo il discorso d’insediamento avvenuto il 4 marzo del 1933 (ultima volta che l’insediamento venne fatto a marzo e non a gennaio), il presidente americano tentò di ripristinare la fiducia nella capacità del governo di affrontare con successo le terribili condizioni in cui versava tutto il Paese. Disse: “L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”. Questo discorso fece comprendere al popolo americano che la Presidenza Roosevelt avrebbe inciso in modo definitivo sull’economia americana e sul suo ruolo di potenza economica mondiale nel futuro prossimo. Cosa che noi europei ricordiamo, per come gli americani diedero sostegno economico e rifornimenti alla Gran Bretagna guidata da Winston Churchill, e poi a tutta l’Europa occidentale in macerie al termine della Seconda Guerra Mondiale.

Un aneddoto prima di proseguire nel ragionamento. Nelle memorie di Winston Churchill, premio Nobel per la letteratura, si racconta che, quando seppe da Roosevelt per telefono che Pearl Harbour era stata attaccata a tradimento dai giapponesi, gli rispose: “Finalmente”, adducendo che gli Stati Uniti sarebbero stati l’alleato che serviva per vincere la guerra.

Roosevelt, dicevamo, viene ricordato perché dovette affrontare la più grande crisi economica non causata da una guerra. E fu veramente determinato, tanto che nel suo discorso di accettazione, il famoso discorso di Chicago, disse: “Io impegno voi e impegno me stesso ad un nuovo corso [New Deal] per il popolo americano”.

Nel programma che portò all’elezione c’era la riduzione delle spese federali per raggiungere il pareggio di bilancio e l’allontanamento del governo federale da tutte le aree private “eccetto dove necessario per sviluppare lavori pubblici e risorse naturali”, aiuti agli Stati federati per fornire ausilio ai disoccupati, riduzione delle tariffe, ed infine la riforma del sistema bancario allo scopo di mantenere una valuta solida.

Noi europei ci immaginiamo che il programma del Partito Democratico americano, sopra ricordato per sommi punti, sia stato diverso dal programma del Partito Repubblicano, ma così non fu. Erano praticamente uguali, con l’unica differenza che i democratici pretendevano tariffe uguali tra i vari servizi forniti dagli Stati, i repubblicani invece desideravano tariffe diverse tra Stati federati, ma geograficamente ed industrialmente molto diversi tra di loro. Questo passaggio non fu da poco, perché costituì un elemento che tra poco, nel corso della nostra trattazione, verrà ripreso.

Nei fatti cosa fece Roosevelt nei primi 100 giorni di governo del 1933? Da marzo a giugno (e ricordo che l’espressione “100 giorni” si deve proprio a questo periodo) chiuse quasi subito le banche del paese per 4 giorni allo scopo di verificare con il Ministero del Tesoro quelle da sostenere e quelle da chiudere e promulgò l’Emergency Banking Relief Bill, approvato per acclamazione dalle camere senza praticamente discussione,  divenuto poi il Banking Act. Con questo provvedimento creò la riserva aurea americana nazionalizzando l’oro detenuto dalle banche e concentrandolo nelle mani della Federal Reserve.
Interruppe il proibizionismo, limitando solo la gradazione alcoolica degli alcoolici, commerciabili quindi liberamente. Ciò sembra cosa da poco, ma la legge proibizionistica aveva creato circa 55mila esercizi illegali in tutto il paese di rivendita degli alcolici quando prima erano solo la metà! Perché il proibire la libera iniziativa aveva generato commerci illegali.
Poi promulgò, sempre con l’ausilio delle camere, una serie di leggi, di cui la più famosa, ed è quella che ci interessa, fu la National Industrial Recovery Act, conosciuta come NIRA, o NRA, National Recovery Act.

Furono moltissimi gli Act, le leggi in questi primi 100 giorni, tanto che diventa difficile ricordarle tutte. Nacque la potenza degli Stati Uniti, la base per la realizzazione del più importante Stato democratico del mondo, cosa che ancora oggi, a distanza di 90 anni circa, sentiamo, vediamo, ammiriamo.

LEGGI ANCHE
Così Trump manovra per tenersi la leadership del Partito Repubblicano

Il NIRA era una legge importante. Recovery, Recupero, cioè Ripresa, che già nel titolo I della legge dichiara una “emergenza nazionale che produce disoccupazione diffusa e disorganizzazione nell’industria, che grava sul commercio interstatale e straniero, che influenza il benessere pubblico e mina il tenore di vita del popolo americano”. Per correggere questa situazione, il NIRA si proponeva di “rimuovere gli ostacoli al libero flusso del commercio interstatale ed estero, eliminare le pratiche concorrenziali sleali, aumentare il consumo di prodotti industriali e agricoli aumentando il potere d’acquisto, ridurre e alleviare la disoccupazione e migliorare gli standard di manodopera”. La NIRA doveva raggiungere questi obiettivi attraverso i codici della concorrenza leale, che erano essenzialmente insiemi di regole create su base industriale che disciplinavano i salari, i prezzi e le pratiche commerciali. I codici erano destinati ad arrestare la spirale discendente dell’economia in cui l’alta disoccupazione deprimeva i salari, che diminuiva il potere d’acquisto pubblico, portando a prezzi e profitti più bassi (mentre le imprese disperate cercavano di sotto prezzarsi l’un l’altra), esercitando ulteriori pressioni al ribasso sui salari. Si sperava che la cooperazione organizzata tra imprese e governo correggesse ciò che alcuni percepivano come uno spreco e un’inefficienza nell’economia del libero mercato. Il tutto per ripristinare il Libero Mercato. Non era keynesismo per occupare spazi imprenditoriali da parte dello Stato, ma era esercitare al meglio la funzione di direzione e coordinamento del funzionamento del mercato, libero.

Opere pubbliche, dai marciapiedi alle dighe, creazione di posti lavoro pubblici temporanei, nuovi contratti collettivi di lavoro con la creazione dei sindacati, stabilità delle tariffe e delle paghe salariali, fecero si che nel 1936 gli Stati Uniti fossero già fuori dalla grande depressione, che da una produzione industriale del pre-1929 di 949 milioni di dollari l’aveva portata a 74 milioni di dollari alla fine del 1932. Spaventosa.

Diciamo che il NIRA fu reso incostituzionale dalla Corte Suprema nel 1937 perché imponeva tariffe alle imprese, mentre in un mercato libero lo Stato non può intervenire più di tanto. Ma il NIRA fu riproposto e senza la limitazione tariffaria fu riapprovato. La guerra, poi, al fianco dell’alleato britannico fece il resto. Questa storia la conosciamo bene.

Siamo arrivati alla conclusione. Ho letto il Piano Colao, ho letto le Slides prodotte post Villa Pamphili, ho letto che l’Europa dal proprio bilancio trarrà le forme di un piano di Recovery, Recupero, da destinare al nostro popolo sofferente ex pandemia.

Come cittadino vorrei un nuovo NIRA, un “National Italian Recovery Act“, un piano vero, di ricostruzione, di rinascita, di recupero per rendere forti i nostri settori economici in questa economia globalizzata, così osteggiata negli anni ’90 da economisti democratici importanti (Krugman, Princeton, poi premio Nobel 2008), ed oggi invece così aiutata a diffondere i prodotti e le merci dei Paesi economicamente più avanzati senza che le eccellenze locali possano affermarsi. In tutti i settori: banche locali non esistono più, solo banche industrialmente importanti sotto la vigilanza BCE; industrie locali medio-piccole manifatturiere sotto scacco da produzioni asiatiche e nordafricane a grande valore aggiunto ma prive di welfare e tutele salariali; industrie medio-grandi delocalizzate per via di dumping fiscali da riportare in Italia come produzione; etc. etc.

Problematiche note; non sta a me adesso suggerire una soluzione, ma sperare che vi sia un piano di recupero della nostra competitività è necessario, imperativo, ne va del nostro sistema Paese, del nostro welfare, del nostro futuro di italiani ed europei.

+ post

Interprete Economico. Laureato in Economia e Commercio, ha lavorato come docente a contratto in materie finanziarie, è dottore commercialista e revisore contabile. Presta la sua opera nel settore bancario come Private Banker occupandosi di gestioni di patrimoni.