di Vincenzo Pacifici

Il giudizio sul lavoro di Ferruccio de Bortoli, Le cose che non ci diciamo (fino in fondo), apparso da pochi giorni, è di ampia sufficienza, condizionato ed appesantito da 3 passaggi.

Il primo è costituito dalla “fascetta” editoriale, intrisa di dolus bonus.

Il secondo consiste nella critica acrimoniosa di “Quota 100”, “lo sciagurato provvedimento del governo gialloverde per mandare in pensione chi con almeno 62 anni di età aveva 38 anni di contributi”. L’autore non ha assolutamente ricordato né citato né tanto meno riprovato severamente l’art. 42 del DPR 1092, varato nel 1973 dall’esecutivo del democristiano Rumor, con il quale furono riconosciute pensioni, ancora oggi usufruite, per gli statali con almeno 20 anni di servizio, indipendentemente dall’età.

Terzo passaggio: più avanti fa proprio, definendolo “sintesi perfetta” sul lavoro domestico (il c.d. smart working), un giudizio imbevuto nel veteromarxismo collettivista: “non credo che si possa chiamare società quella formata da singoli che lavorano nella solitudine delle loro case. Temo rigurgiti d’individualismo, separazione, incomunicabilità e l’ulteriore affievolimento della coscienza collettiva: un terreno fertile per i nazionalismi e i populismi” [e te pareva!].

Di ben altro segno, intelligenti e misurate, sono tantissime pagine, difficili da presentare ma al più da selezionare. Commovente è da considerare il ricordo per i tanti soccorritori vivi e morti “nel cui esempio è il nostro futuro”.

Sulle mancate confessioni, anticipate nel titolo, segnala “come prima cosa che viviamo al sopra dei nostri mezzi […]. Da troppi anni, per mantenere il nostro livello di benessere, lo sottraiamo a chi verrà dopo”. Un esempio presente a tutti: si è in presenza di una distribuzione capillare, almeno verbalmente, non di milioni ma di miliardi di euro, come bruscolini, che de Bortoli definisce “uno scialo di promesse, a un fuoco d’artificio di desideri e risposte, spesso incaute”.

È impossibile confutare l’errore nel momento che si rileva che “la classe dirigente pubblica e privata (sì, anche quest’ultima perché ha fatto prevalere spesso le necessità di settore) ha dato prova in questi mesi di colpevole leggerezza a fronte di una inaspettata disciplina popolare”. Giunge, con mille ragioni, a segnalare che la Confindustria si sia concentrata “sul proprio interesse di bottega”.

In non poche pagine de Bortoli denunzia le incongruenze accumulate in ambito scolastico, arrivando ad ironizzare amaramente sulla situazione di questi mesi: “Un Paese non è aperto se ha le scuole chiuse. Noi l’abbiamo considerato riaperto con le aule vuote. Che idea moderna di una società civile!”.

L’autore conclude auspicando siano conservate “le virtù sprigionate dall’emergenza”. È un peccato, però, che a guidare le sorti del Paese (davvero non della Nazione e tanto meno dallo Stato) siano forze politiche con uomini privi di lucidità, di equilibrio operativo e di una efficace e concreta capacità programmatica.

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Laureato in Giurisprudenza e in Lettere, è stato fino al 2015 Professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato, tra l'altro, volumi su Crispi, sul problema dell'astensionismo e dell'assenteismo nelle consultazioni politiche del periodo unitario, sui consigli provinciali all'inizio del XIX secolo, sulle leggi elettorali del 1921 e del 1925. È presidente della Società tiburtina di storia e d'arte.