di Marco Malaguti

Non ha destato quasi scalpore la nomina di Moni Ovadia alla direzione Teatro Comunale di Ferrara. Probabilmente non quanto ne sperava il sindaco leghista della città, Alan Fabbri, già sindaco di Bondeno e candidato del partito di Salvini alla guida della regione Emilia-Romagna nel 2014. Moni Ovadia, accettando la nomina, si è detto sorpreso della scelta: nessuno più dello scrittore, comico e cantante yiddish è infatti più lontano dalle posizioni del partito di Alan Fabbri, più volte attaccato dall’attore nel corso della sua lunga e fortunata carriera.

Ovadia si è sempre distinto per il proprio supporto per la sinistra radicale, un supporto che si è spinto fino alla militanza attiva e che lo ha visto candidarsi in sigle di sinistra radicale quali Rifondazione Comunista, Rivoluzione Civile e L’Altra Europa con Tsipras. Sempre lo stesso attore si era reso protagonista di dichiarazioni al vetriolo contro la Lega quando, solamente un anno fa, aveva definito Matteo Salvini “un furbastro” alla guida di un partito “terreno fertile per il fascismo” oltre che un “maestro di linguaggio violento”; non si contano inoltre i durissimi attacchi di Ovadia nei confronti di altre personalità del centrodestra, di oggi e di ieri. Viene quindi da chiedersi se non esistesse di meglio, rispetto a uno dei sostenitori delle più velenose sinistre radicali nostrane, da porre alla guida del Teatro Abbado.

In verità non è la prima volta che il sindaco della città estense tenta una captatio benevolentiae verso le sinistre radicali. Una parte consistente del centrodestra aveva già reagito con sorpresa e sconcerto, nel giugno 2019, appena sette giorni dopo la sua elezione a sindaco, alla decisione di Fabbri di presenziare all’inaugurazione del Gay Pride di Ferrara.

Ma qual è il fine di queste concessioni alla controparte? Se l’obbiettivo è cercare di stornare dalla propria persona e dal proprio partito le periodiche accuse di fascismo, razzismo e omofobia, esso è clamorosamente fallito: la Lega continua, infatti, ad essere al centro degli attacchi quotidiani dei media e degli esponenti della controparte, per nulla commossa dalle lusinghe e dalle trattative di pace che un certo centrodestra bene cerca di intavolare. Lo stesso Ovadia ci ha tenuto a rassicurare tutti i suoi fans e compagni: “Io sono e morirò uomo di sinistra” ha dichiarato poco dopo la nomina ai microfoni di Radio Popolare. Tutto questo mentre “Libero” si compiaceva di come Salvini avesse dimostrato di non essere un dittatore. Insomma, una scelta che piace alla destra che piace alla sinistra, ma che è caduta su di un personaggio a dir poco divisivo.

Ovadia è noto infatti per i suoi rapporti burrascosi con le comunità ebraiche per vie delle posizioni radicalmente antisioniste, posizioni che lo hanno portato addirittura ad allontanarsi dalla comunità ebraica di Milano ricevendo minacce quali “rinnegato”, “traditore”, “nemico del popolo ebraico”. Se l’obbiettivo della nomina di Ovadia era quello di tendere la mano a una comunità che, per ovvie ragioni, è sensibile a tematiche quali le discriminazioni razziali e religiose si può dire, a ragion veduta, che egli non fosse la persona più adatta. Viene da chiedersi altresì per quale ragione non si sia cercato qualcosa di più vicino alle posizioni politiche della coalizione che guida la città perché, si stia pur certi, il progressismo non si sottrae mai dal compito di colonizzare gli spazi nei quali riesce a infilarsi.

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Il monopolio culturale di una certa sinistra, inoltre, fa sì che una certa destra assimili tutto ciò che riguarda la cultura come progressista tout court. Si finisce così per affidare ad esponenti della sinistra ogni aspetto della cultura esattamente come si affiderebbe la direzione di una cucina ad un cuoco e quella di un reparto ospedaliero ad un medico, il tutto condito da una certa aria di superiorità che bolla ogni attività culturale come “improduttiva”, mentre il vero uomo di destra sarebbe quello che “produce”: l’imprenditore, l’artigiano, la generica partita IVA. “I laburisti stanno vincendo le elezioni – dice un vecchio proverbio inglese – fino a che i conservatori non finiscono di lavorare e vanno a votare anche loro”. Un proverbio che dice moltissimo su come la destra tradizionalmente inquadra il mondo progressista: un mondo che prospera nell’inutile, nell’improduttivo e nel superfluo, in quisquilie come la cultura e l’arte, mentre gli industriosi tories lavorano come nanetti nelle miniere. Il problema è però essenzialmente questo: arte e cultura forgiano l’immaginario che decide come spenderemo il denaro che guadagneremo lavorando, ovvero direzionano la società imprimendole la forma che influenza poi, sotto forma di precomprensione gadameriana, la politica.

Prova provata ne è il fatto che difficilmente qualcuno restituirà a Fabbri il suo beau geste, e i figli dei conservatori, tutti, andranno quasi certamente a scuola da insegnanti decisamente più simili a Ovadia che ai propri genitori.

Marco Malaguti
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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.