di Giovanni Giacalone

I media italiani e la politica nelle ultime settimane hanno prestato moltissima attenzione al caso del cittadino egiziano Patrick Zaki, arrestato e attualmente detenuto al Cairo con l’accusa di aver pubblicato post sovversivi contro il governo, ma sembrano non fare caso alle persecuzioni messe in atto dal regime di Erdogan nei confronti degli oppositori.

Ultimo caso quello di mercoledì scorso, quando un tribunale turco ha condannato a 27 anni e 6 mesi di carcere il giornalista ed ex direttore del quotidiano “Cumhuriyet”, Can Dundar, con le accuse di “spionaggio” e “sostegno al terrorismo”. Il processo si è tenuto in absentia dell’imputato in quanto dal 2016 Dundar si trova in esilio in Germania, ma pur sempre in pericolo di vita, in quanto la diffusa presenza dei servizi segreti turchi (Mit) nel Paese è risaputa.

Le accuse mosse contro Dundar vanno però decifrate; di cosa è realmente colpevole? Con “spionaggio” il regime di Ankara fa riferimento al servizio giornalistico col quale Dundar nel 2015 documentava il rifornimento di armi camuffate da medicinali e trasportate dal Mit ai jihadisti in Siria, servizio che aveva mandato su tutte le furie Erdogan. Quegli stessi jihadisti che dovevano servire a rovesciare Assad e che sono poi stati riutilizzati anche in Libia a sostegno del Gna e forse anche in Nagorno-Karabakh, secondo quanto reso noto da Parigi. Dundar era poi stato ferito a una gamba in un agguato a colpi di pistola fuori dal tribunale di Istanbul nel maggio del 2016 e poco dopo era costretto a rifugiarsi in Germania. Il giornalista veniva poi accusato anche di aver cospirato assieme al nemico di Erdogan, Fetullah Gulen, nel fallito golpe del 2016.

L’Unione Europea ha condannato la sentenza contro Dundar, esprimendo serie preoccupazioni per quanto riguarda la situazione giudiziaria e quella dei diritti umani in Turchia.

Ancora una volta dunque la Turchia guidata dall’Akp si riconferma come la più grande prigione per giornalisti a livello globale, come illustrato anche sul sito di “Amnesty International“. Del resto non va certo meglio a quei membri del Parlamento considerati scomodi dall’esecutivo, come Enis Berberoglu, Leyla Guven e Musa Farisugullari, membri del partito Chp arrestati a inizio giugno 2020 anche loro con l’accusa di “spionaggio”, molto in voga da un po’ di tempo nei tribunali turchi.

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Purtroppo però ai media e alla politica italiani la repressione in Turchia sembra non interessare; si preferisce puntare il dito contro l’acerrimo nemico di Erdogan, il presidente egiziano al-Sisi. Del resto non è proprio l’Italia a fornire supporto di intelligence al Gna assieme all’alleato turco? Senza dimenticare il combat-vest delle forze armate turche indossato da Silvia Romano subito dopo la liberazione.

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Ricercatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Laureato in Sociologia (Università di Bologna), Master in “Islamic Studies” (Trinity Saint David University of Wales), specializzazione in “Terrorism and Counter-Terrorism” (International Counter-Terrorism Institute di Herzliya, Israele). È analista senior per il britannico Islamic Theology of Counter Terrorism-ITCT, l’Italian Team for Security, Terroristic Issues and Managing Emergencies (Università Cattolica di Milano) e il Kedisa-Center for International Strategic Analysis. Docente in ambito sicurezza per security manager, forze dell’ordine e corsi post-laurea, è stato coordinatore per l’Italia del progetto europeo Globsec “From criminals to terrorists and back” ed è co-fondatore di Sec-Ter- Security and Terrorism Observation and Analysis Group.