di Vincenzo Pacifici

Il volume di Federico Rampini I cantieri della storia. Ripartire, ricostruire, rinascere merita un giudizio largamente positivo, con un titolo accattivante, nient’affatto esagerato. Indubbia è la sensatezza di tante osservazioni contenute nelle 236 pagine. Quanto mai gradito e qualificante è l’indice dei nomi.

Articolato in 7 capitoli, con una introduzione ed un epilogo, prende l’avvio da una riflessione di fondo, sulla quale occorre possedere il senso ed il valore: “Ripartire, ricostruire, rinascere” e sulla quale rimaniamo, come tanti italiani, quanto mai scettici per la nostra nazione.

L’autore fondatamente individua nel crollo dell’impero romano lo “archetipo di ogni decadenza”. Dopo aver avuto “un impatto enorme sui contemporanei […] con il passare dei secoli ha acquistato la forza di un mito”. Nonostante l’avvilimento e la mortificazione della cultura classica, in anni vicini è stato individuato nella Repubblica romana “il primo ordine costituzionale, basato su un sistema di regole, destinato a ispirare tanti sistemi politici europei”. È stata da Rampini posta in risalto un’altra realtà subdola quanto dannosa ieri come oggi: “Un altro fenomeno corrose l’Impero romano dal suo interno: l’estinzione dello spirito civico, del senso di appartenenza ad una comunità”.

Rampini legge gli avvenimenti e le vicende in una maniera sana e lucida, non inquinate né dall’illuminismo né dal radicalismo né tanto meno dall’anacronistico marxismo. Ad esempio, a proposito dello schiavismo, non teme (perché si tratta di temere) di rilevare che “lo schiavismo, come regime di lavoro è stato considerato normale nella storia umana, nel senso che è stato praticato sotto ogni latitudine e civiltà”. L’autore, più avanti, si è chiesto ironicamente ma amaramente “come la scomparsa di ogni genere di statue serva a capire meglio il passato, approfondirlo e criticarlo”. Rampini riflette sull’attualità delle iniziative antirazziste e nota che “chi non si allinea con l’avanguardia intransigente subisce linciaggi mediatici o perde il posto di lavoro”. La mente è ritornata agli episodi analoghi, pesanti e violenti registratisi nella vita quotidiana e nelle università italiane dal 1968 in avanti per lunghi anni.

Riconosce incredibilmente ma lealmente che in Italia dal 1948 in poi la vecchia destra “- mai del tutto scomparsa – ha i suoni motivi per odiare l’America”. Gli anni della “ricostruzione” sono tutt’altro che rosei e efficacemente condotti. Esiste “un diffuso malcontento sullo stato degli investimenti” e decise sono le perplessità espresse e gli interrogativi sollevati da Luigi Einaudi.

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Lapidari quanto inoppugnabili e condivisibili sono da considerare i giudizi manifestati da Rampini su De Gaulle “genio politico, ma anche uomo politico di una integrità morale impeccabile”. E sulla sua realizzazione più alta e purtroppo mai imitata : “L’esecutivo forte [non quello Conte farsesco] sotto la Repubblica è una rivoluzione copernicana nella cultura politica dei francesi. Gliene sono debitori tuttora”.

A proposito del Giappone e della infelice quanto amara esperienza della dominazione americana, Rampini rilancia il dramma taciuto e solo da pochi conosciuto del bombardamento aereo incendiario di Tokio (quasi 100 mila i morti), più devastante delle deflagrazioni nucleari su Hiroshima e Nagasaki. L’autore non può non riconoscere “l’eccezionale tenuta del Giappone durante la pandemia […] sottovalutata in Occidente o liquidata con pochi e superficiali stereotipi” e “il forte senso di uno scopo condiviso e i legami comunitari che avvolgono strenuamente tutti i cittadini”, sentimenti purtroppo assenti nel nostro Paese, condizionato dalla egemonia politica, durata decenni, della DC e del PCI.

Sulla Cina, nonostante la ricostruzione delle responsabilità della pandemia appaia debole (immaginiamo cosa sarebbe successo se a scatenarla fosse stato uno Stato guidato da partiti di destra), lasciano un segno indelebile le parole, non occasionali e cariche di trasparenti sottintesi della chiusa. “Sul coronavirus dovremmo leggerci cosa ci raccontano giapponesi, sudcoreani , taiwanesi, che dall’altro capo del mondo hanno vissuto una storia diversa e osservano la nostra confusione, le nostre sofferenze. Poi c’è la Cina, dove costruire narrazioni collettive è il mestiere di un regime con un apparato propagandistico senza rivali. Là sta nascendo qualche altra leggenda, o Storia ufficiale per un pezzo di umanità”.

“Intelligentibus pauca verba”.

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Laureato in Giurisprudenza e in Lettere, è stato fino al 2015 Professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato, tra l'altro, volumi su Crispi, sul problema dell'astensionismo e dell'assenteismo nelle consultazioni politiche del periodo unitario, sui consigli provinciali all'inizio del XIX secolo, sulle leggi elettorali del 1921 e del 1925. È presidente della Società tiburtina di storia e d'arte.