di Ivan D’Urso
Ha fatto molto parlare, sia in Italia sia fuori, l’uscita del libro Il mito del deficit. La teoria monetaria moderna per un’economia al servizio del popolo della scrittrice statunitense Stephanie Kelton. Non molto tempo fa su un giornale italiano usciva un articolo dove l’autrice e le sue teorie venivano presentate al pubblico. Balza subito all’occhio come vengano usati termini del tipo “pensiero scorrevole ed esempi illuminanti” per descrivere il metodo comunicativo della Kelton.
Le sue idee partono dal presupposto che il mainstream economico sbaglierebbe a paragonare lo Stato e le famiglie: infatti i debiti del primo potrebbero essere estinti generando ex-novo moneta. Ciò a cui si riferiscono i seguaci della Modern Monetary Theory (di cui la Kelton è esponente) è un modello in cui non vi sono vincoli di bilancio, il deficit non è un problema e il fenomeno inflattivo viene frenato dal prelievo delle tasse. Come scritto qualche rigo sopra, questi “pensieri scorrevoli ed esempi illuminanti” sono molto spesso frutto di grandissime semplificazioni (non è escludibile la malafede dietro) che creano modelli de facto errati.
Per fare qualche esempio, infatti, viene totalmente ignorato quello che è detto “Trilemma della Politica Economica” e che illustra come non sia possibile avere contemporaneamente tassi di cambio fissi, perfetta mobilità di capitali e politica monetaria indipendente. Può sembrare una cosa da poco ma, ipotizzando che da domani si applichino le teorie della M.M.T., un Paese dovrà scegliere a cosa rinunciare tra capitali mobili e tassi fissi. Per gli effetti rimando alla storia di svariati Paesi sudamericani. Tralasciando questo problema è evidentemente assurdo il metodo proposto per contrastare l’inflazione, in quanto non vengono minimamente menzionati nel modello gli strati più esterni degli aggregati monetari (per i più tecnici, da M1 in poi). Sempre riguardo la moneta non è chiaro come questa venga creata dalle banche centrali né come funzionino i loro bilanci.
Tralasciando però ora le, a mio avviso, numerosissime ulteriori contraddizioni di personaggi che de-pensano definendosi keynesiani (a riguardo si veda cosa pensava J.M.K. di molti suoi seguaci), credo sia opportuno tornare al punto di partenza, ossia all’articolo con cui su un giornale di destra viene presentata la professoressa Kelton. La scrittrice del saggio, per chi non lo sapesse, fu consigliera economica di Bernie Sanders, esponente più a sinistra nella scena politica americana. A mio avviso la canonizzazione politica da parte del mondo conservatore di determinate teorie, ideologie, personaggi e chi più ne ha più ne metta, sono a tutti gli effetti il più grande cavallo di troia che possiamo portarci dentro. Dare credito a questa parte di mondo culturale (magari per antipatia verso l’euro, la Germania, il fiscal compact o mille altri motivi che non starò qui a giudicare) significa avvicinarsi a proposte e soluzioni veramente pericolose.
Mi ritengo personalmente un liberal-conservatore e pertanto tutt’altro che d’accordo con determinate istanze. Un esempio di ciò che intendo potrebbe essere il rischio che a qualche esponente della destra possa venire in mente una legge sulla regolamentazione del salario minimo, nelle cui criticità non mi addentrerò. Oppure potrebbero pensare ad una riforma stringente in ambito di contrattazione collettiva, che è l’ultima cosa che serve a questo paese. E perché non aggiungere anche una patrimoniale o una tanto invocata tassa sui big del web. Insomma, di punti deboli in cui possano annidarsi determinate idee ce ne sono. La minaccia è quella che sdoganare certi elementi possa far avvicinare una destra che si definisce liberale a delle posizioni di sinistra radicale, con non pochi richiami ad un marxismo mascherato, che hanno tutto il potenziale per rivelarsi disastrose sia a livello culturale sia a livello economico.
Studente di Economia e Management all'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata". Attivo da anni nel mondo del servizio associativo.
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