di Silvio Pittori

Nella attuale società ogni individuo risulta titolare di infiniti diritti e, nel contempo, privo di obblighi. Si tratta di una società privata del senso di colpa, individuale e collettivo, sfumato nel perdonismo assoluto, alla ricerca costante di responsabili esterni all’io agente. La dottrina marxista da un lato, il cattolicesimo di sinistra dall’altro, hanno privato la nostra società di quello stretto legame fra colpa e punizione: la colpa, da intendersi non come colpa ontologica, ma come presupposto soggettivo della condotta, in cui affonda le radici la condotta “ingiusta”, richiama la punizione come effetto della prima, nella sequenza condotta-colpa-punizione. Si constata oramai un eccesso di perdonismo, alla ricerca incessante del motivo sottostante ad ogni azione, che, così analizzata, richiama comunque alla massima indulgenza. Ovviamente lungi da me anche soltanto l’idea di richiamare la colpa come morbo da cui purgare l’anima del reo, restando al contrario fedele ad un concetto secolare della colpa distinto dal concetto di peccato, come coscienza del bene e del male cui il senso di colpa solitamente si richiama, per l’agente così come per colui che è chiamato a giudicare.

Si arriva così a minare alla radice il principio fondante di ogni società, per cui le regole devono essere rispettate, tollerando il mancato rispetto delle stesse con giustificazioni di ogni sorta, tipiche dell’analisi casuistica. Ciò costituisce oramai una costante anche nelle aule di giustizia, dove da tempo Caino è al centro del palcoscenico, anche a discapito di Abele, con un perdonismo diffuso nei confronti di una certa tipologia di reati e di imputati, al quale consegue la perdita di fiducia da parte dei cittadini.

Tale eccesso di perdonismo, sotto forma di applicazione delle norme sulla prescrizione, sembra a molti essersi manifestato nelle aule della Suprema Corte alla lettura della sentenza sulla cosiddetta strage di Viareggio, sentenza che ha dichiarato prescritto appunto il reato di omicidio colposo, a causa, a quanto è dato di conoscere, del mancato riconoscimento di una aggravante, che impediva si maturasse, dopo circa undici anni dal fatto, la prescrizione del reato.

Non entro nel merito della sentenza, ma della ennesima, rinnovata presa di posizione di coloro che si dichiarano da sempre favorevoli alla cancellazione delle norme sulla prescrizione, quale asserita panacea dei mali della Giustizia, ponendo pertanto le basi per la creazione di un processo penale senza fine. In realtà, la cancellazione delle norme sulla prescrizione costituirebbe una pacifica violazione del principio di cui all’articolo 111 della nostra Costituzione, rappresentato dalla ragionevole durata del processo – poiché il processo, come insegna Carnelutti, è già di per sé una pena, ogni persona ha diritto a un processo che si svolga in tempi ragionevoli – principio presente anche nella Carta dei diritti dell’Unione Europea, così come nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

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Non dovremmo pertanto discutere, nell’ottica di un miglioramento del sistema Giustizia, della cancellazione o meno delle norme sulla prescrizione, né tantomeno immaginare di approntare rimedi di natura temporale per rendere pressoché impossibile che la prescrizione maturi, ma di quali possano essere i correttivi tecnici perché si addivenga ad un processo “giusto”, a tutela certamente di Caino ma anche altrettanto certamente di Abele, processo che come tale – “giusto”- è indissolubilmente legato alla sua stessa celerità. Questi correttivi, che dovrebbero andare di pari passo con la reintroduzione all’interno della società, ed in tutti i campi (scuola, lavoro, aule di giustizia et cetera), del senso di responsabilità del singolo, andrebbero individuati nella separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura requirente, quale garanzia della sostanziale terzietà del giudice, e nel passaggio dalla obbligatorietà, ad oggi soltanto formale, dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, alla facoltatività di detto esercizio, stante anche il fatto che proprio dietro il concetto di obbligatorietà alberga la classica giustificazione dei gravi ritardi in cui talvolta incorre il pubblico ministero nella fase delle indagini, ritardi accumulati in detta fase pre-processuale da cui trae assai spesso origine la prescrizione del reato nella fase dibattimentale. Un ulteriore correttivo dovrebbe essere rappresentato dalla previsione di una qualche forma di responsabilità diretta ed effettiva a carico del magistrato affinché, come avviene in tutte le professioni, non abbia una carriera assicurata chi avesse commesso gravi errori, tali da tradursi, nel campo della Giustizia, in gravi sofferenze del singolo e della società.

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Avvocato cassazionista con sede a Firenze, esperto in diritto civile societario e in diritto penale di impresa e contrattualistica. Laureato in Giurisprudenza all'Università degli Studi di Firenze.