di Vincenzo Pacifici

Il responsabile della pagina “culturale” del “Corriere della Sera”, sempre attento e sensibile ai temi, nonostante i tanti decenni trascorsi, dell’antifascismo puro, cristallino ed inoppugnabile, giorni addietro ha segnalato in una scheda fortunatamente sintetica un lavoro “sul maschilismo in camicia nera”.

Ricordando la scomparsa di Giorgio Galli, il sullodato Carioti ha raccolto un avviso dello scomparso, secondo il quale i regimi totalitari non andavano presentati come “esempi di pura barbarie” ma ne andavano studiate “criticamente le vicende per inserirle in un contesto storico più generale”.

Ora di ben altro tono, nella sua complessità (636 pagine), appare il lavoro di Paolo Nello (Storia dell’Italia fascista, 1922 – 1943). Il volume inizia con l’antefatto (1914 – 1922), per poi ripercorrere, sempre fitti di note, i primi non facili e semplici passi dell’ancora movimento (1922 – 1925) per giungere poi al “regime che prende forma” (1925 – 1927) e al periodo organizzativo ed operativo del regime con l’“uomo nuovo e i giovani” (1927 – 1935). Sono di seguito studiati la politica estera dal “disarmo” all’impero (1929 – 1936) ed i passi di crescita con “Verso un fascismo ulteriore” (1936 – 1940). Con il VII capitolo si abbandona inspiegabilmente l’analisi delle vicende nazionali per passare all’indagine ed alla lettura del versante della politica estera: cap. VIII, A braccetto con Hitler (1936 – 1938), cap. IX, La “storica fesseria” dell’intervento(1938 – 1940), cap.X , La vittoria che non c’è (1940 – 1941). Si rientra poi nell’alveo italiano, troppo anticipatamente abbandonato, con le sezioni conclusive XI, Lo spettro della capitolazione (1941 – 1943) e XII, Il collasso del regime (1943).

Da un punto di vista globale, secondo il ponderato giudizio espresso recentemente da Eugenio Di Rienzo, “quel regime fu immediatamente accolto da un consenso vasto, duraturo e pressoché incontrastato a cui solo il netto profilarsi della catastrofe militare pose fine nella seconda metà del 1943”.

Il volume del cattedratico pisano non manca davvero di pagine e di osservazioni scientificamente fondate, anche se manca di attenzione per la componente nazionalista.

Meritano di essere raccolti alcuni momenti. Sin dalla primavera del 1922 il Pnf si candidava ad essere “il partito della nazione vocato a rappresentarne, mobilitarne, inquadrarne tendenzialmente la totalità delle componenti economiche e sociali”. Il 30 ottobre 1922 “Mussolini non aveva conquistato il potere con l’insurrezione, bensì più prosaicamente, su incarico conferitogli dal capo dello stato, con l’obbligo di presentarsi davanti al parlamento per ottenerne la fiducia”. Il consenso tributato al fascismo poi era progressivamente crescente tanto che nelle amministrative del 1929 fu ben scarso il consenso raccolto dalle opposizioni.

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Paolo Nello, storico qualificato, riconosce per i condannati per reati politici che il loro numero non era comparabile a quelli ben diversi “del terrore capillare e del sistema concentrazionario di massa caratterizzanti il comunismo staliniano e il nazionalsocialismo hitleriano”. La condizione speciale (non sarebbe più limpido definire “privilegiata”) del cattolicesimo – rileva ancora il cattedratico toscano – fu ribadita e rinvigorita dai Patti Lateranensi a differenza dei problemi avuti con il regime tedesco, “per tacere, ovviamente, dell’Unione Sovietica”.

A proposito del consenso – per concludere la lettura – anche da sponde tutt’altro che inclini: il consenso era “destinato a crescere, insieme ai suoi limiti, nell’elemento operaio e contadino via via che diventavano adulti i ragazzi transitati nelle organizzazioni giovanili fasciste, tramite le quali, oltretutto, i figli di chi non aveva mai fatto una vacanza in vita sua erano stati al mare o ai monti grazie alle colonie e i campeggi estivi organizzati dal partito (cui parteciparono in media oltre 400.000 fanciulli l’anno fra il ’31 e il ’35, ben più di 700.000 fra il ’36 e il ’40, un milione circa nel ’41)”.

Dopo il conferimento da parte del pontefice al duce dell’Ordine dello Speron d’oro (11 febbraio 1932), è impossibile dimenticare che “il consenso della gran massa dei cattolici al regime non fu mai in discussione, includendo nel giudizio, salvo frange marginali, la gerarchia, il clero, l’associazionismo e i non organizzati (che poi erano i più, non necessariamente in sintonia con il movimento organizzato)”.

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Laureato in Giurisprudenza e in Lettere, è stato fino al 2015 Professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato, tra l'altro, volumi su Crispi, sul problema dell'astensionismo e dell'assenteismo nelle consultazioni politiche del periodo unitario, sui consigli provinciali all'inizio del XIX secolo, sulle leggi elettorali del 1921 e del 1925. È presidente della Società tiburtina di storia e d'arte.