di Dario Citati
Secondo un noto adagio, l’albero si giudica dai frutti. Affinché qualsiasi pianta dia frutto, tuttavia, è necessario che assorba acqua e sali minerali dal terreno e che in esso trovi ancoraggio: proprio a questa funzione sono deputate le radici, senza le quali in definitiva nessuno sviluppo è possibile. Evidentemente consapevoli che questa verità naturale ben si applica anche alla storia umana, ormai diciassette anni fa il filosofo Marcello Pera e l’allora cardinale Joseph Ratzinger diedero alle stampe un saggio a quattro mani dall’evocativo titolo Senza radici. Europa, cristianesimo, relativismo, islam (Milano 2004).
La tesi di questo libro ha mostrato nel tempo una profetica e persistente attualità di fondo. Il rifiuto dell’inserimento delle radici cristiane nel preambolo di Costituzione europea, lungi dall’essere una questione riguardante soltanto i credenti, rientrava in un più ampio percorso di autodemolizione della civiltà occidentale. In particolare, l’ex Presidente del Senato sottoponeva a disamina due strategie argomentative del relativismo che in modo uguale e contrario hanno condotto alla situazione attuale. Da un parte il “contestualismo”, ossia l’idea che non si possano giudicare altre culture con un criterio obiettivo e che esse vadano comprese e giustificate in base al contesto di provenienza (stratagemma utilizzato per giustificare la legittimità degli usi e costumi di questa o quella minoranza). Dall’altra il “decostruttivismo”, che in maniera opposta pretende appunto di decostruire, cioè di mostrare il carattere artefatto di tutto ciò che ha prodotto la cultura occidentale.
Quando, come si è visto in tempi recenti, a Milano viene imbrattata la statua di Indro Montanelli, a Londra viene sfregiata quella di Churchill e negli USA si tirano giù quelle di Cristoforo Colombo in quanto “razzisti e colonialisti”, siamo alla manifestazione più patente di cosa voglia dire una società senza radici e al contempo assistiamo ad un salto di qualità (in negativo) del relativismo progressista che Marcello Pera aveva già diagnosticato anni fa. In Italia, in Europa e in tutto l’Occidente, il fenomeno della cancel culture esprime oggi la violenza intollerante di chi divide la storia in buoni e cattivi e per ciò stesso manca di senso storico, applicando una censura finanche retroattiva, e purtuttavia attenta a bollare sempre e solo gli avversari come fomentatori di odio.
Di fronte a questo, l’imperativo della Destra dovrebbe essere quello del radicamento, cioè di riscoprire e ripiantare quelle radici divelte. In questi anni, il sovranismo ha cercato di interpretare l’esigenza di resistere al politicamente corretto, ma non sempre adottando gli strumenti culturali adeguati. Una Destra che sia davvero “radicata” nella società e nella cultura nazionale dovrebbe essere capace di trasformare anche lo slogan in proposta politica articolata. Proprio sul piano della strategia politica, il sovranismo italiano appare più che mai bisognoso di punti di riferimento che consentano di appellarsi alle radici in modo non retorico, bensì fondato sul senso storico e sulla capacità di operare sintesi. Uno di questi è senz’altro la fedeltà ai valori della Repubblica: un riferimento che le Sinistre da troppo tempo hanno preteso di monopolizzare, sino a manipolare gli stessi significati della Carta costituzionale.
Perché il sovranismo dovrebbe ancorarsi al repubblicanesimo? In primo luogo, lo stesso concetto di sovranità, sia antico sia moderno, è intimamente legato all’idea di res publica. Questa si fonda sul connubio tra libertà politica e virtù civiche, sul presupposto che la garanzia di libertà dei singoli individui sia appunto l’indipendenza – e dunque l’esercizio della sovranità – del corpo politico cui ciascuno di essi appartiene. Le fonti classiche di questa concezione sono rintracciabili in Polibio, Cicerone e Tito Livio; tra epoca medievale e moderna essa si è inverata nell’esperienza istituzionale delle Repubbliche marinare, delle città-Stato e dei Comuni; trovando poi in Machiavelli, Guicciardini e altri autori di area soprattutto toscana e fiorentina i suoi maggiori esponenti teorici.
Questo repubblicanesimo di matrice italiana, oltre a ritrovarsi – sia pur con accenti più di sinistra – nel pensiero di Mazzini e Cattaneo, ha avuto inoltre grande influenza sulla concezione dei Padri Fondatori degli Stati Uniti. Il mito della Roma repubblicana e del civis romanus fu determinante nella Guerra di Indipendenza americana, al punto da lasciare segni indelebili nell’architettura delle sedi istituzionali washingtoniane che così fortemente richiamano le città italiane (non a caso uno dei maggiori studiosi del repubblicanesimo lo ha definito una tradizione politica “italo-atlantica”). E la concezione dello Stato che deriva da questa cultura repubblicana è lontana sia dal dirigismo accentratore di sinistra (lo Stato come macchina burocratica che pretende di regolamentare ogni aspetto della vita), sia dagli eccessi del liberalismo (la visione idealizzata del mercato e dell’individuo che finisce per svilire qualunque ruolo dell’azione pubblica). Si tratta di una idea di Stato in cui la sovranità risulta appunto collegata alla rappresentanza e all’alternanza delle classi al potere: una visione che, nello scenario italiano di oggi, non esclude certo un rafforzamento del potere esecutivo attraverso una futura riforma presidenzialista, affiancata a un ripristino del controllo democratico sulla potestà legislativa.
La migliore rappresentazione di questo repubblicanesimo rimane quel capolavoro pittorico che è l’Allegoria del buon Governo di Ambrogio Lorenzetti che si può ammirare nel Palazzo Pubblico di Siena: su tre registri iconografici separati ma connessi si stagliano le Virtù, le istituzioni comunali, il popolo (cittadini ed esercito). I valori democratici della civiltà comunale ivi rappresentata sono i medesimi di tante città-Stato italiane, da Nord a Sud, da Legnano ad Amalfi, che nel corso dei secoli si sono spesso combattute a vicenda ma hanno anche saputo unirsi in forma di leghe italiane contro lo straniero. Sono quei valori cittadini di patriottismo, mobilità sociale, accesso alle magistrature e alle cariche pubbliche oltre le distinzioni di censo, entrati a far parte anche della Costituzione della Repubblica italiana. In essa, un soggetto politico sovranista trova una legittimazione tanto necessaria quanto inaspettata. Quando ad esempio si difendono i simboli culturali, religiosi e storici della tradizione italiana (dal presepe ai prodotti tipici, dalle imprese militari ai grandi esponenti della letteratura e dell’arte) si sta applicando la lettera della Carta costituzionale, che all’art. 9 “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Sì, nella Costituzione si usa la N maiuscola, senza aggiungere “purché il patrimonio non risulti offensivo per la sensibilità dei migranti” né sottintendere “ad eccezione di autori che con le loro idee o comportamenti hanno rafforzato gli stereotipi coloniali o di genere”.
Un repubblicanesimo orientato a destra rappresenterebbe quindi una fonte importante per strutturare il sovranismo quale soggetto politico conservatore di massa. Esso fungerebbe anche da antidoto agli estremismi e ai radicalismi, a quel “parlare alla pancia” del Paese senza articolare proposte istituzionalmente fondate. Nella dialettica in seno all’Unione Europea, l’ancoraggio repubblicano dimostrerebbe che le rivendicazioni sovraniste avvengono in nome della Costituzione nazionale, e che quindi le stesse cessioni di sovranità possono avvenire solo in quanto compatibili con l’ordinamento repubblicano nel suo spirito originario. In tal senso, la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, introducendo all’art. 117 ambigui “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, ha rappresentato – insieme all’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione nel 2012 – un problematico tentativo di normalizzare il vincolo esterno europeo che è all’origine di molti dei mali di oggi. Ridiscutere quei cambiamenti con l’obiettivo di annullarli dovrebbe essere una delle battaglie politiche di una Destra repubblicana, nel segno di un costituzionalismo conservatore che ripristini, incarni e valorizzi lo spirito patriottico della Carta.
Perché se i Padri costituenti hanno certo previsto che l’Italia debba conformarsi alle norme internazionali generalmente riconosciute (art. 10), hanno altresì decretato che la “difesa della Patria è sacro dovere del cittadino” (art. 52). E hanno persino messo nero su bianco che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29), che di per sé stesso costituisce un principio assai complicato da conciliare con le innovazioni brussellesi in tema di diritti civili (malgrado le arrampicate sugli specchi di fior di giuristi di sinistra a darne una interpretazione il più possibile “non escludente”).
Molte delle posizioni che il sovranismo italiano ha difeso in questi anni hanno insomma un fondamento inconsapevolmente costituzionale e repubblicano: un fondamento spesso demonizzato dalla caricatura che ne ha fatto la Sinistra, ma talora anche banalizzato dalla foga di una comunicazione politica non sempre opportuna. Un sovranismo repubblicano, che difenda le radici culturali della Nazione anche in nome della Costituzione, rivendicherebbe l’eredità dell’Italia democratica del dopoguerra e del miracolo economico, l’Italia del lavoro, del risparmio e dello sviluppo della classe media, l’Italia dei padri e dei nonni che immaginavano un’integrazione in Europa capace di proteggere, non di eliminare, le identità nazionali. Una idea di Europa come civiltà di nazioni quale piattaforma di un progetto politico conservatore.
Co-fondatore e Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Storia Contemporanea e Dottore di ricerca in Studi Slavi presso l’Università Sapienza di Roma.
Scrivi un commento